Agamben e il comunitarismo

13 Gennaio 2022

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 Da Comedonchisciotte dell’11-1-2022 (N.d.d.)

Ogni vero movimento di massa è, non fosse che per le sue dimensioni, collettore di disparati bisogni e pulsioni sociali. Questo dato, sebbene fosse camuffato dalla preponderanza egemonica della componente socialista e anticapitalista, era vero anche nel ‘900. Nel nuovo secolo, venuta meno quella preponderanza egemonica, i movimenti di massa sono caratterizzati anche dalla più complessa pluralità ideologica. Essi sono dunque doppiamente eterogenei. Prendiamo ad esempio il movimento contro il green pass. Fenomeno tipicamente italiano — conseguenza del fatto che l’Italia è assurto a principale banco di prova del great reset —, esso è fuoco di resistenza al regime change e moto di rifiuto della dittatura tecno-sanitaria, ergo un movimento politico di massa. Una composizione sociale quanto mai poliedrica — esso mobilita infatti cittadini appartenenti alle più diverse classi e categorie sociali —, si specchia con una composizione ideologica altrettanto frammentata.

Il Rapporto CENSIS 2021 volendo catturare gli aspetti ideologico-culturali salienti del movimento è giunto a conclusioni caustiche: esso sarebbe anzitutto caratterizzato da “irrazionalità, pensiero magico, superstizioni antimoderne, speculazioni complottiste” e via contumeliando. Per conto dei dominanti il CENSIS coglie sì aspetti reali, ma essi vengono abilmente deformati e ingigantiti allo scopo di squalificare il movimento come “reazionario”, così da far credere che esso è destinato a soccombere innanzi all’irresistibile progresso scientifico e tecnocratico. Provando invece a mappare con rigore politico-filosofico l’arcipelago del movimento occorre indicare le sue cinque isole principali: (1) quella del repubblicanesimo democratico, entro la quale stanno anche le correnti socialista e anarchica; (2) quella del cattolicesimo tradizionalista, entro la quale stanno la componente reazionaria di Viganò e pure certi ribellismi fascistoidi; (3) quella  liberale, entro la quale stanno anarco-liberisti e liberisti veri e propri; (4) quella di un fantasmagorico quanto generico spiritualismo new age, la cui cifra politica è senza dubbio il gandhismo; (5) quella che lato sensu potremmo definire comunitarista — nella fattispecie l’idea di fondare, qui ed ora, comunità di vita alternative esterne al perimetro sistemico, basate su forti vincoli etico-valoriali.

Ci occuperemo di questa tendenza comunitarista poiché, nel clima segnato dal fisiologico riflusso del movimento e dall’errato presentimento che l’avanzata del regime tecno-totalitario sia irreversibile, questa tendenza esibisce una certa forza egemonica di seduzione — tale che contagia infatti anche le altre aree politico-culturali di cui sopra. La proposta di staccarsi dalla società costruendo comunità autonome solidali possiede essenziali punti di forza: a) condivide col senso comune la tesi nichilistica della morte delle “grandi narrazioni”, di qui il rifiuto di ogni etica universalistica; b) fa sua una concezione antropologica pessimista dell’essere umano, di qui l’idea che solo minoranze spiritualmente illuminate possono associarsi in armonia; c) respinge quindi come utopistica la via politica di rivoluzionare la società tutta; d) soddisfa due bisogni apparentemente opposti: quello della trascendenza spirituale e il suo immanentistico rovescio, il mettersi subito all’opera per ottenere risultati concreti e cambiamenti tangibili; e) postulando di tagliare tutti i ponti con il sistema sociale vigente essa sposa infine un ribellismo esuberante ed eroico.

Contribuisce, a questa forza di seduzione della proposta comunitarista, il filosofo italiano Giorgio Agamben. Ad Agamben bisogna riconoscere il doppio merito di essere il solo intellettuale di prestigio ad aver condannato subito e senza esitazione l’Operazione covid, e di essersi schierato apertamente a sostegno dei movimenti di protesta. Pensiero e percorso filosofico complessi assai quelli di Agamben, come notevoli sono state le sue frequentazioni teoriche e di vita: da Pasolini a Guy Debord, da Benjamin ad Heidegger, da Schmitt a Foucault passando per Lyotard e Derrida. Scrisse Toni Negri che con il libro L’uso dei corpi (2014) Agamben si congedava definitivamente dal marxismo. Di più, quel distacco si fondava su una ontologia catastrofista: non c’era modo di vincere le forze del potere e del dominio, non restava che scovare la felicità della fuga e della contemplazione. Toni Negri biasimava infine il distacco di Agamben dallo stesso Foucault, che qualche (lontano) spiraglio alla possibilità rivoluzionaria ancora lasciava, criticando con durezza la proposta agambeniana per cui non restava ai saggi che la via della “inoperosità” e della auto-esclusione dalla società, dell’atarassia come sola prassi possibile. In verità Agamben si era congedato dal marxismo e dall’idea della politica come necessaria prassi sociale trasformatrice ancor prima di quando Negri segnalasse. Molti anni prima in La comunità che viene, Agamben scolpiva questo concetto: «Poiché il fatto nuovo della politica che viene è che essa non sarà più lotta per la conquista o il controllo dello stato, ma lotta fra lo stato e il non-stato (l’umanità), disgiunzione incolmabile delle singolarità qualunque e dell’organizzazione statale».

Facciamo quindi un salto all’oggi. Posta la profondità teorica della critica al “colpo di stato” operato dall’élite dominante con l’Operazione covid, Agamben ha espresso con la massima chiarezza la sua proposta proprio nei suoi saluti alla manifestazione dei centomila del 25 settembre: «In queste condizioni, senza deporre ogni possibile strumento di resistenza immediata, occorre che i dissidenti pensino a creare qualcosa come una società nella società, una comunità degli amici e dei vicini dentro la società dell’inimicizia e della distanza. Le forme di questa nuova clandestinità, che dovrà rendersi il più possibile autonoma dalle istituzioni, andranno di volta in volta meditate e sperimentate, ma solo esse potranno garantire l’umana sopravvivenza in un mondo che si è votato a una più o meno consapevole autodistruzione». Agamben ci offre una medaglia e, come ogni medaglia, ha due lati: una visione della storia apocalittica in salsa nichilistica e una via di fuga epicurea. Si condivide con gli apocalittici la considerazione fatalistica che il mondo ed il tempo presenti siano irrimediabilmente corrotti e condannati all’autodistruzione — con la differenza, di qui il senso nichilistico, che il nostro non crede affatto in un intervento decisivo e salvifico di Dio. Posta questa premessa catastrofista addirittura sorprendente è la prossimità, anzi l’omologia con l’etica epicurea. “Liberati dagli affari e dalla politica” e “vivi nascosto”, sosteneva il grande filosofo Epicuro. Abbandonate l’idea della Repubblica platonica e quella della città aristotelica, considerato anzi che ogni stato e/o società politica sono luoghi di alienazione e soggezione, il filosofo proponeva ai saggi l’auto-esilio dal mondo, una vita in comunità fondata su vincoli affettivi e di amicizia. L’epicureismo portava così alle estreme conseguenze l’etica aristocratica di autoesclusione dal mondo propria dei filosofi in età ellenistica, età segnata dal crollo delle polis, dalla perdita di autonomia delle città greche e dall’avvento di imperi e monarchie cosmopolitiche che avevano trasformato i cittadini in sudditi. Salta agli occhi come, all’omologia tra le vedute pessimistiche dei due filosofi, corrisponda l’analogia tra il periodo storico ellenistico e quello attuale segnato dalla globalizzazione: simile a quello delle polis l’eclissi degli stati-nazione, simile la sostituzione della democrazia con regimi di tirannia, simile l’ideologia dominante cosmopolitica. Il prestigio e la stima di cui Agamben gode nei circuiti del movimento contro il green pass danno appunto più forza e plausibilità agli argomenti di chi propone la fondazione di comunità separate, autogovernate e autosufficienti. Detto che usiamo la figura del comunitarismo lato sensu è certamente comunitarista l’idea per cui, liquidata come utopistica l’opzione per una società emancipata di liberi ed eguali, respinta quindi come sterile la fatica della prassi politica come azione per trasformare il mondo; la sola possibilità sarebbe quella di micro-società fortemente coese e identitarie, fondate, se non proprio sulla condivisione di una medesima visione del mondo, sulla accettazione delle stesse forme e modi di vita, sulla medesima idea di bene comune su una gerarchia dei valori etici. Se l’epicureismo fu la via di fuga dei filosofi, cinquecento anni dopo, ascetiche minoranze di fedeli cristiani, riscoprendo lo stesso anelito alla separatezza e all’esodo da un mondo totaliter corruptus, rifiutarono ogni compromesso con la modernità del tempo e voltarono le spalle, non solo al potere secolare, ma pure ad una Chiesa diventata fondamentale pilastro del dominio imperiale. Un esempio commovente di radicale spiritualità, rispettato e amato dalle masse dei reietti e dei diseredati […]

Molti secoli dopo, a quella forma primordiale di comunitarismo che fu il monachesimo cenobitico, toccò la medesima amara sorte della Chiesa, quello di diventare parte integrante del feudale sistema di dominio e oppressione economica — di qui l’insorgere successivo di nuovi fenomeni di comunitarismo cristiano, sia nella forma delle sette ereticali che in quella degli ordini mendicanti come quelli francescano e dominicano. Trascorsi altri secoli, nel cuore stesso della modernità capitalistica, si assistette alla rinascita del fenomeno della fondazione di comunità autosufficienti ed autogovernate — questa volta su basi egualitarie e socialiste. Parliamo dei tentativi dell’industriale inglese Robert Owen e del filosofo francese Charles Fourier — di cui alcuni conobbero un momentaneo successo altri invece fallirono miseramente. Questi tentativi vennero rubricati da Marx alla voce “socialismo utopistico”, qualificazione alquanto dubbia se si considera che caratteristica di quegli esperimenti fu proprio quella di realizzare concretamente nel presente storico l’ideale sociale, senza quindi spostarne il compimento in un futuro lontano e indeterminato. Insomma, quello che con neologismo moderno abbiamo chiamato comunitarismo ha in verità radici molto antiche, è quindi con profondo rispetto che se ne deve parlare. Come non essere solidali con chi disprezza questo mondo? Come non condividere il bisogno e il sogno di sfuggire al futuro che ci viene prospettato? Come non desiderare di guadagnare, qui e ora, un approdo, una terra promessa? Ed infine, come extrema ratio, come non sperare di poter trovare un rifugio, un santuario, un riparo inespugnabile che resista alle tempeste all’orizzonte? Come sottovalutare l’idea che nella catastrofe cibernetica serva una nuova arca di Noè? Rispetto non equivale tuttavia a indulgenza. Se si presta la dovuta attenzione al dibattito in seno alla componente comunitarista del movimento no green pass, se si analizzano col necessario scrupolo le idee in circolazione, si scopre non solo tanta ingenua astrattezza, ci si imbatte in pressapochismo teorico e in vere e proprie astrusità. Non si pretendono la precisione normativa di un Pacomio o di un Benedetto da Norcia, di un Owen o di un Fourier; ma a chi ci dice che vani sono tutti i tentativi di cambiare il mondo e ci propone di separarci da esso per edificare unità sociali autonome, è doveroso chiedere: come queste comunità saranno organizzate? Come produrranno e distribuiranno i beni? Seguiranno le leggi di mercato o adotteranno un sistema pianificato? Come saranno politicamente e giuridicamente strutturate? Ci saranno i servi ed i padroni oppure si contemplerà un’effettiva giustizia sociale? Che relazioni avranno queste comunità fra di loro e, anzitutto, col mondo esterno? Come potranno difendersi da pressioni ostili e dall’eventuale aggressione dei nemici? Sono queste domande capziose o legittime? Se sono legittime reticenza e ambiguità sono inammissibili. Ahinoi, la confusione con cui si vorrebbe porre mano all’opera è direttamente proporzionale al pessimismo con cui si giudica ineluttabile e incombente la catastrofe. Ammesso e non concesso che in ambiente di capitalismo onnipervasivo siano possibili piccole comunità non-capitaliste autosufficienti — che se fossero capitaliste non sarebbero evidentemente alternative e dunque nemmeno varrebbe la pena parlarne! —; noi non crediamo che la catastrofe sia inevitabile; noi riteniamo che ci siano ancora lo spazio, il tempo e le premesse per impedire l’avvento di quello che abbiamo chiamato il cybercapitalismo. Se abbiamo ragione nessuna autoesclusione dal mondo è ammessa, nessuna fuga dalla lotta politica è accettabile. Se abbiamo ragione non possiamo sottrarci al dovere POLITICO di consolidare la Resistenza, di strutturarla come contro-potere popolare egemonico e costituente.

“Non possiamo non dirci cristiani”, affermò Benedetto Croce. E se lo siamo è perché Gesù, invece di fuggire nel deserto, scelse di entrare in Gerusalemme sfidando le autorità nemiche. Meglio morire in campo di battaglia che passare alla storia come disertori.

 Moreno Pasquinelli

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