La decrescita e il rischio leninista
7 gennaio 2009
 

 
Sembra che da oggi, 2 gennaio 2009, il destino dell’economia italiana e mondiale sia legato, come non mai, ai saldi. Non è un battuta, basta sfogliare i giornali (come qui: http://seidimoda.repubblica.it/dettaglio/Previsioni:-top-o-flop/55705).
In effetti, e per dirla rozzamente, un sistema che si regge sui consumi, come quello capitalistico, ha necessità che la gente consumi. Il “volano” dell’economia è nei consumi: più si consuma, più si produce; più le imprese vendono, più crescono profitti e salari.
Tuttavia l’ago della bilancia sembra pendere in favore dei profitti ( e secondo il vecchio Marx da sempre...). E con particolare gravità nelle situazioni di crisi economica. E per una semplice ragione: tutti rischiano di tirare la cinghia, ma chi è alto ha un potere contrattuale maggiore nei riguardi della politica (come istituzione). O se si vuole più forza per influire a proprio vantaggio sulla ripartizione profitti-salari.
E si tratta di una questione sociologica e non solo economica.
Di regola, nella società post-1945, l'idea stessa di crisi economica è sempre stata percepita dai diversi gruppi sociali come potenzialmente riduttrice del proprio stile di vita, inevitabilmente collegato, in una società dei consumi, al crescente possesso di denaro. Di qui la strenua difesa della propria condizione sociale. Se c’è una caratteristica che distingue la società attuale, questa è data dalla angoscia di perdere ciò che si possiede. Si teme di perdere, come non mai, quel poco o tanto che si possieda. E lo si vuole difendere strenuamente. E a maggior ragione in una crisi molto seria come quella attuale.
Ovviamente la difesa è collegata alla propria posizione nella scala sociale. E quanto più si è in alto, tanto più ci si difende meglio. Dando per scontato il non intervento della politica in ambito redistributivo, come continua a dettare, pur con qualche timido ripensamento, l’ideologia neo-liberista.
Ora, in un quadro del genere, dove i salari si riducono e i profitti restano comunque sempre consistenti, imporre alla gente di consumare, approfittando dei saldi, è offensivo e ridicolo.
Che fare allora? Tre possibilità.
Uno. Intervenire politicamente sulla ripartizione profitti-salari, con occhio attento anche alle rendite sociali (spesso frutto di speculazioni finanziarie e immobiliari). Tenendo però presente che in una situazione di crisi, come l’attuale, la “torta da dividere” tende comunque “oggettivamente” a divenire più piccola. Di qui perciò la necessità "sviluppista" di produrre di più, ma sempre in un quadro oligopolistico.
Due. Ridurre i consumi e ritmi produttivi puntando sulla modificazione del tenore di vita di tutti. E dunque utilizzando la crisi come volano di una decrescita economica generalizzata. Ma come convincere gli oligopolisti a cambiare strada ? Si tratta di un antico quesito: si può insegnare all'uomo ad essere libero, se ogni uomo a un'idea diversa della libertà? Certo, lo si può, favorendo la libertà formale. A che prezzo però? Quello di trascurare la libertà sostanziale...
Tre. Conciliare crescita produttiva dei beni collettivi (scuola, università, cultura sanità, trasporti, edilizia pubblica, energie alternative) e “decrescita” degli stili di vita consumistici. Ferma restando la necessità di introdurre una più equa ripartizione profitti-salari.
Naturalmente le tre soluzioni impongono maggiore attivismo governativo. O se si preferisce crescente interventismo pubblico. Con il rischio però, soprattutto nel caso di scelta "decrescista" (seconda e terza possibilità), di scatenare perverse dinamiche di tipo autoritario. Perché, per dirla brutalmente, il vero nodo della questione è nella difficoltà di introdurre la sobrietà individuale per legge collettiva. E principalmente di come persuadere gli oligopolisti a tornare sui propri passi.
Certo, in linea teorica, si può preparare il terreno puntando sull’auto-educazione e sull’auto-organizzazione sociale. Due forme di “azionismo sociale” che però richiedono tempi lunghi. E in modo particolare al cospetto di un’economia capitalistica, che dal punto di vista della temporalità sociale (per dirne solo una...), si regge in chiave programmatica e previsionale su rendiconti economici, finanziari e patrimoniali di tipo mensile, trimestrale, semestrale e annuale…
Di qui, anche per chi sia in buona fede, il rischio del leninismo: quello di affrettare i processi sociali ricorrendo soltanto all'uso della forza...

Carlo Gambescia

da http://www.carlogambesciametapolitics.blogspot.com
Commenti
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h2otonic (Registered) 07-01-2009 19:26

Finalmente qualcuno che facca riferimento allla cosidetta DECRESCITA.
Lo fa con tutti i dovuti timori di chi intuisce di percorrere un campo minato, vista l'impossibilità di attuarla tramite una....autoeducazione collettiva!
Intuisce il sig. Gambescia che cio' irrita gli oligopolisti del pensiero prima che quelli economici, e che quindi si rischia la condanna morale:
benvenuto fra i reietti; dopo il primo periodo di comprensibile smarrimento,si accorgerà che la gazzarra dei sostenitori del sostenibile, vista dal di fuori mostra ancora di più tutta la sua dannosità, in quanto principale complice del sistema che decide, e che pretende di modificare a suon di girotondi.
Ancora un piccolo sforzo sig. Gambescia!
a.marmiroli1@hotmail.it
Barazz (Registered) 07-01-2009 20:54

Gambescia sembra suggerire una possibile strada verso il ritorno allo schema di ripartizione del reddito degli economisti classici, spazzata via dai marginalisti alla fine dell'800, magari in chiave più moderna.
Potrebbe essere una strada interessante da percorrere, almeno a livello di riflessione teorica.
La Decrescita deve sforzarsi di ampliare la sua riflessione e sviluppare una teoria che le dia credito in ambito economico a mio avviso.
Per esempio, qualche pensatore dovrebbe riflettere sul ruolo che può avere la forma cooperativa d'impresa nella società della decrescita, grazie al suo non vedere il profitto come finalità ultima dell'azione economica.
h2otonic (Registered) 08-01-2009 00:39

Non conosco la differenza sostanziale fra i due tipi di economisti, ma se il prevalere degli uni sugli altri è dovuto a motivi validi ancora oggi, vale a dire i limiti umani(lo deduco dai risultati), anche la forma cooperativa può valere per limitate realtà circoscritte, forse.
Si tratta in definitiva di strappare l'osso dalle fauci del molosso mondialista, e non credo che questo sia possibile solo con la forza della logica, anche se disinteressata, di tutti i migliori pensatori del mondo.
a.marmiroli@hotmail.it
Barazz (Registered) 08-01-2009 12:14

Ma sono due cose (i vecchi economisti e le coop) che non centrano nulla tra loro.
Tanto più che le coop si sono espanse all'interno del sistema costruito dagli economisti "nuovi"...
h2otonic (Registered) 08-01-2009 16:22

Intendevo dire:" perfino un indirizzo economico di tipo cooperativo, che trovo tra i piu' accettabili, non credo possa essere imposto in larga scala,anche perche', come tutte le teorie, economiche o meno, devono tenere conto dei vari equilibri di forze fra individui, comunita' ecc,"
In poche parole e' mia convinzione che le teorie possono servire al pensatore fino alla fase accademica, dopodiche' non si puo' non fare i conti con la realtà, che delle teorie economiche liberiste o socialiste che siano, ne ha smentito le premesse essenziali.
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