7 febbraio 2009 Non fatela morire, l'anima non muore
Ian Grzebsky, polacco di sessantacinque anni, si è svegliato dopo diciannove anni di coma. Né la Polonia comunista né quella della nuova era capitalista lo hanno visto morire. La moglie lo ha amorevolmente accudito, senza aiuti statali, senza perdere la speranza per un così lungo tempo. E’ stata ripagata. Al risveglio Ian ha saputo della fine del comunismo, che i suoi quattro figli si erano sposati e che gli avevano dato ben undici nipoti. A Salvatore Crisafulli, catanese di trentotto anni, in coma da due in seguito ad un incidente stradale, avvenuto l’11 settembre 2003, volevano staccare il sondino, ma il fratello Pietro non si è mai arreso. Si è dedicato alla cura di Salvatore, insieme alla madre e all’altro suo fratello, ed ha chiesto e ricevuto l’aiuto del Ministro della Sanità Francesco Storace. Ora esulta, perché Salvatore si è svegliato, parla ed ha raccontato che mentre era in coma vedeva e sentiva tutto. “Sentivo mio fratello dire che capivo tutto - racconta - e lo sentivo urlare perché nessuno gli credeva. Ma io non potevo parlare, non potevo muovermi, non potevo far nulla per fargli capire che c'ero, che lo sentivo. E così piangevo”. Venti anni o solo due, ed altri casi di tre o quindici anni di coma, seguiti da un risveglio e dalla ripresa della vita in condizioni più o meno normali. Quasi tutti ricordano di aver udito voci, in maniera distinta o confusa, di aver percepito gusti, di aver sognato, ricordato. Altri non si sono mai risvegliati. Cos’è la morte cerebrale se non il tentativo triste di un’umanità saccente e presuntuosa, che pretende di capire e spiegare tutto, tanto da voler stabilire attraverso una pseudo scienza di natura profana quando inizia o finisce una vita? Eluana Englaro avrebbe detto al padre che a queste condizioni di vita sarebbe stata preferibile la morte. E’ possibile, anche se altri testimoni dicono il contrario. Chissà perché dopo diciassette anni. Forse il padre ha perso la speranza, quella che invece ha guidato la moglie di Ian per un periodo altrettanto drammatico, ma ancor più lungo. Quando la legge stabilirà che le proprie disposizioni scritte potranno permettere di staccare la spina, coloro i quali preferiranno morire piuttosto che attendere difficili ma non impossibili risvegli, determineranno il loro destino. Nel frattempo si può morire solo di fame e di sete. Per una volontà riferita, vecchia di quasi vent’anni, mentre il cuore batte, il sangue circola, i capelli crescono e, forse, si sente tutto, si sogna, si ricorda. Non è un delitto sperare che l’anima si trovi in lunghi corridoi di ovatta bianca, e che il proprio destino spirituale, curvo e non rettilineo, esiti a definirsi ed attenda la volontà propria, quella divina, o entrambe, in una dimensione dove il tempo è diverso da quello terreno. Non si tratta di essere cattolici o atei, io non sono nessuna delle due cose. Si tratta di poter pensare che l’anima ed il corpo non debbano per forza accompagnarsi, che l’una possa fare a meno dell’altro per qualche tempo, a volte. Ed altre volte no. Perché il possibile e l’impossibile sono categorie moderne e scientiste, ma esistono mondi, ideali e geografici, dove tutto è possibile. Dove ogni gioia può esplodere e cancellare la tragedia fin lì in atto, dove il sogno allieta l’attesa degli eventi positivi, dove arrendersi significa che altri hanno determinato la tua sconfitta. Dove si crede che il mondo invisibile animato da Dei e Dèmoni, Geni e Spiriti, Karma e Dharma, insieme ad un’altra infinità di esseri e credenze, miti e sogni, determini quella straordinaria, inebriante, meravigliosa esperienza che è la vita terrena, l’unica cosa che gli Dei invidiarono agli uomini. Per questo motivo, ad alcuni di essi sottrassero il corpo, ovvero gli donarono l’anima, affinché la divina incorporeità potesse ammirare i colori, udire i suoni, incantarsi davanti al bello ed all’infinito. In questo mondo antico e sognante, dove uno sciamano ed un sacerdote contano più di un laureato in medicina, si spera che all’improvviso un corpo esanime si possa animare, rivedere il mondo con altri occhi, e ripagarti in un attimo di gioia per vent’anni di buio, tristezza e solitudine. Chi farà morire Eluana Englaro di fame e sete forse proverà pena per le mie parole. Io ne avrò per loro. Marco Francesco De Marco Lo Stato non può toglierci il diritto di morire in pace Trovo osceno il balletto che da mesi si sta danzando intorno al letto di un moribondo da parte di cattolici e laici per affermare le proprie ideologie. Senza alcuna pietas, senza nessuna misericordia per il caso umano di Eluana Englaro. Abbiamo assistito e stiamo assistendo a iniziative e a interventi inauditi per impedire che una sentenza definitiva della Magistratura, che autorizza i medici a staccare gli speciali macchinari che tengono artificialmente in vita la Englaro venga applicata. C’è stato un ricorso del Parlamento respinto per manifesta incompetenza dalla Corte Costituzionale. C’è stata una minacciosa direttiva del ministro del Welfare Sacconi alla clinica di Udine che in un primo tempo aveva accettato di accogliere la Englaro e che in seguito, intimidita, si è tirata indietro. Ci sono stati picchetti di "movimenti per la vita" che hanno cercato di impedire la partenza dell’ambulanza che portava la Englaro alla clinica "La Quiete" di Udine (ma come si permettono? Dov’era la polizia?). Adesso il ministro Sacconi, col rinforzo dell’assessore alla Sanità del Friuli Venezia Giulia, cerca di aggirare l’ostacolo sostenendo che "La Quiete" non è attrezzata per interventi di questo genere. E il governo sta preparando in tutta fretta un decreto che blocchi per sessanta giorni l’avvio delle procedure che dovrebbero porre fine al calvario di Eluana Englaro. Il premier Silvio Berlusconi, sempre pronto a cavalcare ogni demagogia e ogni emotività popolare, l’ha detto a chiare lettere: "Stiamo lavorando per intervenire". E Umberto Bossi gli ha risposto che il governo "non può decidere della vita e della morte". Un decreto del genere è inammissibile perché, superando la sentenza della Cassazione, si porrebbe come quarto grado di giudizio. Il giudizio del governo. Saremmo in pieno Stato autoritario, per non dir peggio, tanto varrebbe far decidere direttamente da Berlusconi o dai suoi ministri ogni altra causa, civile e penale. Tutto questo mentre associazioni come "genitori per la vita" o consimili, sbandierano i loro figli handicappati (come se si trattasse della stessa cosa) fanno un’indegna gazzarra davanti alla clinica "La Quiete" senza nessun rispetto per Eluana morente, per suo padre, per la decenza. Ognuno di noi ha diritto a una morte naturale il che significa che la vita non può e non deve essere accorciata artificialmente da terzi. Perché questa sarebbe eutanasia che nel nostro Paese, secondo me giustamente, non è ammessa. Parliamo di interventi di terzi perché in una società laica la vita non appartiene né allo Stato né alla Chiesa né a Dio ma solo a chi ne porta il fardello e che ne può disporre come vuole, anche sopprimerla pur essendo sanissimo (e infatti gli ordinamenti attuali, a differenza di quanto accadeva nel Medioevo, non considerano reato il suicidio). Ma il diritto a una morte naturale significa anche che la vita non può e non deve essere allungata artificialmente. Perché questo è "accanimento terapeutico". È il caso di Eluana Englaro. Dire che esiste un obbligo di dare cibo e acqua al malato, perché questo non è un intervento medico e quindi non rientra nell’"accanimento terapeutico", è l’escamotage usato da chi vuole tenere a tutti i costi in vita una persona che, se si fosse lasciato fare alla natura il suo corso, darebbe morta da tempo. Perché Eluana non viene alimentata e dissetata in modo naturale, ma attraverso speciali macchinari della medicina tecnologica. Quando una persona viene alimentata e dissetata inserendo un tubo nello stomaco e un sondino nel naso questo non è solo un intervento medico, è un intervento chirurgico. E anche la sua storia che togliendo a Eluana la si manderebbe incontro a indicibili sofferenze è contraria alla verità. Questi malati non sentono più lo stimolo della sete. Tanto è vero che ai malati terminali, negli ultimissimi giorni si toglie l’idratazione proprio per consentir loro di assopirsi dolcemente. Lo Stato moderno, che tutto vuole controllare, che tutto vuole regolamentare, in una sorta di ossessione codificatoria di derivazione borghese, ci ha tolto molti diritti. Ci lasci almeno quello di morire in santa pace. Massimo Fini (da www.gazzettino.it)
|