L'umanità non esiste

di Stefano D'Andrea

13 dicembre 2010

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Stefano D'Andrea, lettore del Giornale del Ribelle, iscritto ad Alternativa di Giulietto Chiesa e sottoscrittore del documento "Uniti e Diversi", la cui prima assemblea nazionale costituente si terrà a Bologna il 18 dicembre p.v. e di cui farà parte anche Movimento Zero, ha scritto questo articolo al fine di riflettere su un punto fondamentale di ogni pensiero che voglia porsi in alternativa al sistema dominante.

“L’umanità non è un soggetto della storia, non agisce, non subisce azioni, non si trova in una o altra situazione; non ha uno o altro problema; non ha una strategia; dell’umanità non si può predicare nulla; l’umanità non si può né amare né ammirare ed è invocata dalle grandi potenze per ingannare i dominati”.
Durante la seconda assemblea di Alternativa, il laboratorio politico promosso da Giulietto Chiesa, mi è capitato di proporre un emendamento alla bozza di statuto provvisorio. L’emendamento mirava a sostituire il termine “umanità”, presente in un paio di luoghi dello statuto, con altra espressione (le “società occidentali”), non felicissima (perché formulata di fretta) ma comunque, a mio avviso, molto migliore di quella presente nella bozza. L’emendamento è stato respinto con maggioranza quasi totalitaria (solo due voti favorevoli, tra i quali il mio, e due astenuti). Con questo articolo –che naturalmente non è rivolto soltanto ai membri di Alternativa o dei movimenti che assieme ad Alternativa stanno cercando di costituire un partito alternativo al partito unico delle due coalizioni– vorrei spiegare per quali ragioni il termine umanità o l’espressione “società umana” e simili, non dovrebbero mai essere utilizzati nello svolgimento di ragionamenti politici. L’auspicio è che queste note suscitino qualche adesione e, comunque, almeno una replica motivata, visto che fino ad ora, almeno all’interno di Alternativa, su questo tema mi trovo in posizione assolutamente minoritaria, senza aver ascoltato argomenti che cerchino di inficiare i miei. Insomma, io cerco di argomentare per quale ragione non si dovrebbe utilizzare il termine "umanità"; sarebbe forse utile che chi ne fa un grande uso replicasse alle mie obiezioni.
Mi interrogo sull’umanità come soggetto collettivo, al quale si allude con espressioni del tipo “l’umanità si troverà di fronte…”, non come sentimento o criterio di condotta morale, al quale si allude con espressioni come “un po’ di umanità!” e simili; e intendo constatare che, come soggetto collettivo, l’umanità non esiste, al fine di trarne qualche corollario che consenta di rendere coerenti, chiari, rigorosi e sensati i ragionamenti politici.
Avete mai avuto notizia che l’umanità abbia compiuto un’azione? Che abbia dichiarato una guerra o sia stata attaccata? Che si sia data una moneta? Che si sia organizzata politicamente? L’ONU è una organizzazione nata da un trattato stipulato tra Stati e non è espressione dell’umanità.
Avete mai ascoltato una persona sensata predicare qualche cosa dell’umanità? Attribuite un senso alle espressioni: “l’umanità è colta” o “l’umanità è analfabeta” o “l’umanità è pacifica” o “l’umanità è guerrafondaia”? Non credo. O almeno spero per voi di no.
Si badi che dell’umanità non si può predicare nulla anche se si aspira, come si deve, ad esprimere un giudizio sintetico di carattere statistico. Ciò non accade se si vuole predicare qualche cosa di uno o altro popolo. Allora si dirà e si dice spesso che un popolo è guerrafondaio o al contrario che è o è sempre stato pacifico; che esprime o ha espresso in altri tempi una grande cultura, ovvero che è un popolo di analfabeti e di pastori; che è un popolo composto da uomini alti e robusti; che è un popolo caratterizzato da un’educazione rigorosa o da alto livello di corruzione; e così via.

Perché possiamo predicare dei popoli, sia pure, come è ovvio, sul piano statistico, ciò che non possiamo predicare dell’umanità? Semplicemente perché i popoli esistono e l’umanità no. L’umanità è niente altro che un termine che designa l’insieme dei soggetti o meglio dei popoli che vivono sulla terra. L’umanità non è nemmeno una somma, perché, come da piccoli abbiamo appreso alle scuole elementari, non si possono sommare le mele con le pere e con le arance; i popoli, infatti, sono tutti diversi.
Si può “amare l’umanità”? E si può “amare un popolo”?
Se si intende per amore qualcosa come l’ammirazione –ammirare è uno dei significati del verbo amare– nel primo caso si deve rispondere di no e nel secondo di si. Se qualcuno, mentre svolge un dialogo con voi, vi dichiarasse “io amo l’umanità”, cosa pensereste? Avreste una buona impressione di quella persona o vi insospettireste? Che significa amare l’umanità? Se, appunto, si intende per amore l’ammirazione, come si può ammirare l’insieme dei popoli o degli uomini che vivono sulla terra? Al contrario si può ammirare un popolo (sempre dal punto di vista statistico, naturalmente): per la cultura musicale e i costumi che esprime; o per il carattere guerriero e la capacità e volontà di resistere, anche combattendo per decenni, a invasioni di popoli meglio armati, più ricchi e più dotati sotto il profilo tecnologico; o per l’indole libertaria dei suoi membri; o per altre ragioni.
Se invece si utilizza il termine amare in senso proprio, mentre, talvolta, ha un senso l’espressione “amare un popolo”, per esempio quando si narra che un condottiero amava a tal punto il suo popolo, che si sacrificò per esso, non si può, salvo che si creda di essere Dio, “amare l’umanità”. Il filosofo Salvatore Natoli, che credo non sia cattolico né cristiano, ha scritto che “… al termine umanità è preferibile il termine evangelico prossimità. Il prossimo è: io, l'altro e l'altro accanto, perché l'umanità è astratta. Nel nostro secolo, in nome dalla umanità si sono commessi grandi delitti. È difficile commettere delitti di fronte alla prossimità”; e quando ha ammesso che “L'umanità non esiste, è incarnata in ogni uomo” ha alluso, con il riferimento all’umanità incarnata, all’altro e più preciso significato della parola, come criterio di condotta morale che dovrebbe essere nell’animo di ogni uomo (S. Natoli, L’etica della vita quotidiana). Ma noi ci stiamo interrogando se esista o meno l’umanità come soggetto collettivo. E la risposta, ormai è chiaro, deve essere negativa.
Se poi consideriamo che negli ultimi anni le azioni politiche più criminali, ignobili, prepotenti e imperialistiche sono state compiute in nome dell’umanità – alludo alle guerre umanitarie – dobbiamo convenire con l’autorevole filosofo del diritto italiano Danilo Zolo, il quale ha collocato in epigrafe del suo importante libro “Chi dice umanità” una frase di Carl Schmitt: “Chi dice umanità cerca di ingannarti” (si pensi al preteso genocidio dei kosovari, mai avvenuto, o alle armi di distruzione di massa e alla alleanza tra Saddam e Al Qaeda, risultate, le une e l’altra, pure menzogne). Qui sembrerebbe che l’umanità sia invocata nell’altro significato, di minimo criterio morale di condotta che deve essere presente in ogni uomo. Ma è chiaro che chi non è dotato di quel minimo criterio di condotta è un “non uomo” e la guerra autorizzata dall’Onu o iniziata in nome dell’umanità dalla Nato diviene una guerra dell’umanità (nel senso di soggetto collettivo) o di una parte di essa contro “non uomini”. Non a caso gli ambienti angloamericani e sionisti hanno definito e definiscono Milosevic, Saddam e Ahmadinejad come “nuovi Hitler”. Preciso soltanto che talvolta chi dice umanità non sta cercando di ingannare gli altri, bensì, senza ovviamente saperlo, sta ingannando se stesso –e questa, secondo il mio punto di vista, è la posizione degli amici di Alternativa e di tanti altri sinceri antagonisti o critici del sistema– perché sta formulando proposizioni che, per principio –proprio perché l’umanità non esiste– non sono dotate di significato teorico e pratico.
Quale corollario deve trarsi dalla constatazione che l’umanità non è un soggetto della storia, non agisce, non subisce azioni, non si trova in una o altra situazione, dell’umanità non si può predicare nulla, l’umanità non si può né amare né ammirare ed è invocata dalle grandi potenze per ingannare i dominati?
Sotto il profilo del discorso politico, che è quello che interessa in questa sede, sembra che il corollario sia che, nell’esprimere ragionamenti e propositi politici, si deve evitare, nel modo più assoluto, l’uso del termine “umanità” (e delle espressioni che sovente lo sostituiscono), pena la insensatezza, teorica e pratica, di frasi che, altrimenti – ossia se in luogo di umanità si utilizzassero altri termini – avrebbero un preciso significato teorico e la capacità di esprimere un sensato proposito politico. L’uso del termine umanità fa scivolare il discorso verso il piano moralistico, religioso, buonista, stoltamente cosmopolita (confonde la realtà con un –peraltro opinabile– desiderio), ipocrita (unisce ciò che è diverso) e umanitarista; mentre si deve essere umanisti e realisti, non umanitaristi.
Reco soltanto un esempio, tra i tanti che sarebbe possibile addurre. Consideriamo il tema del cosiddetto picco del petrolio. Qui è necessaria una premessa. Il comune cittadino, sebbene tenti di informarsi e magari sia dotato di una robusta cultura, umanistica o invece scientifica, non è generalmente in grado di farsi una opinione fondata su solidi argomenti circa il già avvenuto raggiungimento del picco, ovvero circa l’imminenza del raggiungimento, ovvero circa l’insussistenza del problema, almeno per i prossimi due o tre decenni. Perciò, il cittadino ecologista o con tendenze apocalittiche finisce per “credere” che il picco sia stato o stia per essere raggiunto; e il cittadino scettico e quello cinico per “credere” che si tratti del solito allarme degli apocalittici. Credere, così come si crede in Dio. Tuttavia, un politico lungimirante ed accorto può muovere dal presupposto che il raggiungimento del picco è un evento possibile –così come, in generale sono possibili più limitate crisi energetiche, dovute ad altre cause– e pertanto, in considerazione di questa possibilità (oltre che di altre ragioni), può proporre una o altra strategia di politica energetica e di politica estera per il proprio paese.
Tanto premesso, ha senso domandarsi quali saranno le conseguenze del raggiungimento del picco del petrolio sull’umanità? No.
Infatti, nel momento in cui si verificheranno le più gravi conseguenze, alcuni popoli, mediante l’azione degli organi statali, si saranno preparati e avranno scelto, a seconda dei casi: di stipulare trattati bilaterali con stati produttori, i quali assicureranno le forniture necessarie e, eventualmente, di assicurare la difesa armata del trasporto del greggio; e/o di sostituire, tempestivamente e nella maggiore misura possibile, le fonti di energia tradizionali con altre fonti; e/o di perseguire una politica di risparmio energetico e di diffusione di una cultura spartana tra la popolazione. Altri stati si troveranno del tutto impreparati. E di questi alcuni, potendoselo permettere (o credendo di averne la possibilità) ricorreranno all’uso della forza, dichiarando guerre di aggressione, magari spinti dalle popolazioni non disposte a fronteggiare pacificamente la nuova situazione e a sopportare stoicamente le terribili conseguenze. Altri comprenderanno di non essere stati previdenti e si daranno da fare per arginare i danni e prendere tardivamente le opportune decisioni. Senza trascurare che alcuni stati conserveranno, per molti anni, le fonti di energia tradizionali di cui dispongono e le utilizzeranno per il proprio popolo, anche se ciò comporterà una notevole diminuzione delle entrate (a causa della diminuzione delle vendite); mentre altri stati dovranno sopportare tutte le conseguenze della carenza di energia.
Dunque, l’ipotesi del picco del petrolio non costituisce un problema dell’umanità. Perché questa non esiste. Perché non è e non sarà l’umanità a fronteggiare il problema, ad effettuare le scelte e a prendere le decisioni. Perché non tutti i popoli si trovano nella medesima situazione e quindi non tutti avranno lo stesso problema. E d’altra parte, le capacità, le tecnologie, la ricchezza e, ahimè, la potenza militare e la prepotenza dei popoli sono diverse. Quindi anche le strategie sono e saranno diverse.
Ciò che ho osservato per il picco del petrolio vale per tutti i possibili problemi politici. Perciò vorrei invitare gli amici di Alternativa, del Movimento per la decrescita felice, di Per il Bene comune, di Movimento Zero  e tutti coloro che si stanno impegnando per dare vita al partito alternativo al partito unico delle due coalizioni a prendere atto: che l’umanità non esiste; e che i militanti devono svolgere ragionamenti che, nell’analisi, considerino soggetti collettivi reali (Unione europea, Stati Uniti, Cina, Giappone, Bric, Onu, Italia, Germania, ecc.) e, nella proposta, rispecchino la dimensione territoriale dell’azione politica che si vorrebbe svolgere: l’Italia. Non si tratta di essere nazionalisti né patriottici. Si tratta di tutt’altro: senso del limite, onestà intellettuale; minimo realismo; esigenza di non ingannare noi stessi.
Ciò non significa che si debba ostacolare o non si debba promuovere una internazionale della decrescita o una internazionale dell’autodeterminazione dei popoli o una internazionale socialista (vera, non quella che oggi esiste) o una internazionale antimoderna o una internazionale anticonsumistica o una internazionale della tutela dell’infanzia e così via. Ciascuna di queste internazionali può essere utile a far circolare propositi politici, esperimenti e risultati. Ma i propositi, gli esperimenti e i risultati saranno irrimediabilmente propositi, esperimenti e risultati di uno o altro popolo ed eventualmente di più popoli. Il partito che deve sorgere dovrà elaborare proposte che si vorrebbero attuate dal Parlamento italiano (o dagli enti territoriali minori, che tanto possono fare in materia di lotta alla cementificazione e di risparmio energetico), sul fondamento di un’analisi, necessariamente anche geopolitica, che consideri soltanto i soggetti collettivi reali e dunque escluda ogni riferimento all’umanità. La chiarezza del ragionamento politico e la purezza linguistica con la quale esso è espresso sono le uniche armi che possiamo contrapporre alla lobotomizzante scatola catodica: i migliori ci seguiranno.

Commenti
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Giovanni Marini (Registered) 13-12-2010 12:25

Bellissimo, concordo completamente. Un esempio di ragionamento filosofico inoppugnabile, ma come spesso accade le menti migliori sono in minoranza. Non angosciarti.
fosco2007@alice.it
lucianofuschini (Registered) 13-12-2010 13:29

Anch'io concordo. Un bellissimo testo come questo dimostra quanto sarà ricco e articolato il dibattito all'interno del nuovo soggetto politico che andiamo a costituire, ma anche che la convergenza fra persone di diversa formazione è già un fatto reale che fa ben sperare per il futuro. Finalmente nasce un'avanguardia alla quale dobbiamo aderire con convinzione.
MarMar81 (Registered) 15-12-2010 17:01

Non posso che concordare col mio compare (dire "compagno" potrebbe portare a interpretazioni erronee ) di Alternativa Stefano D'Andrea. Bisogna essere realisti e ragionare sul locale; ne abbiamo parlato a lungo sabato scorso a Genova nella riunione locale dei gruppi che aderiranno al nuovo soggetto politico. Il che non significa escludere il mondo, bensì ragionare in termini razionali e concreti e non utopistici e vaghi. Concludo dicendo che bisogna entrare il prima possibile in contatto con gruppi europei analoghi al nostro (in Gran Bretagna e in Irlanda noto un gran fermento "sotterraneo" su certe tematiche), in modo da poter costituire una sorta di "rete" europea di gruppi che, AGENDO SUL LOCALE, SULLA PROPRIA SPECIFICITA', contribuiscano tutti insieme a un cambio di rotta continentale che rispecchi quello auspicato da menti illustri come, tra gli altri, Massimo Fini e Costanzo Preve.
zacheo01 (IP:82.76.204.29) 15-12-2010 19:25

Interessante l'articolo.
Io con il termine umanita' ho sempre inteso il "genere umano", accomunato da specificita' che lo distinguono dal "genere animale" o "genere vegetale".
Quindi direi che si possa parlare di umanita' nell'accezione ristretta di "genere umano". Ma oltre alle differenze biologiche, cosa accomuna l'umanita', e quindi il genere umano, tanto da renderla una categoria a se? Io credo che sia la sua necessita' di riconoscersi in un sistema di valori (religiosi, o civili, o di gestione economica o tutte e tre le cose messe assieme). Questo non vuol dire, come afferma fortemente MZ, che tali i valori debbano essere universali, cioe' trasversali a tutta l'umanita', ne' tantomeno che ne esistano di migliori a cui educare chi in essi non si riconosce.
Anche chi si macchia di "crimini contro l'umanita'" a sua volta, fa parte dell' umanita' stessa. E' quella parte di umanita', ossia di genere umano, che agisce in base a sistemi di valori che prevedono la prevalicazione su altri soggetti del genere umano al fine dell'affermazione degli stessi (ossia dei propri sistemi di valori).
Quanto al discorso politico, e' vero che non esiste in linea di massima un destino comune all'umanita' ma che di popoli si deve parlare. L'unico destino comune che puo' consetire di guardare al genere umano come una sola umanita', si riconduce alla sua perpetuazione, o alla sua scomparsa come specie.
E il cambiamento climatico, la desrtificazione, la riduzione delle terre coltivabili, e' un problema dei luoghi geografici oggi direttamente colpiti, o in prospettiva riguardera' l'intera umanita'?
Pensiamo ancora all'industrializzazione. Essa non riguarda l'intera umanita' intesa come la sommatoria di singoli individui. Non tutti i singoli individui vivono in societa' industrializzate. Ma possiamo affermare che essi non ne sopportano le conseguenze? Cioe', possiamo dire che benche' non tutta l'umanita' sia industrializzata, tutta l'umanita' deve sopportare le conseguenze dell'industrializzazione? Per dire: i popoli dell'Amazzonia hanno conservato nei limiti del possibile il loro vivere, e quindi non sono industrializzati. Ma il disboscamento causato dell'industrializzazione, non fa si che anche essi ne sopportino le conseguenze? e la riduzione dei polmoni verdi del pianeta, non e' un problema dell'umanita', nel senso che danneggia tutto il genere umano?
E i fenomeni di migrazione, che riguardano sia chi parte sia i paesi di destinazione, a loro volta causati dall'industrializzazione, vanno considerati come fenomeni che interessano i singoli individui, o come un processo che riguarda l'umanita'?
Forse dovremo in questo caso realizzare un'analisi quantitativa, per determinarlo.
Insomma, in linea di massima trovo l'articolo interessante perche' credo abbia voluto estremizzare il discorso per far passare il giusto messaggio del non ridurre tutto ad un unicum, ma l'affermazione secca che l'umanita' in se non esiste, neppure nell'accezione di genere umano, non mi convince.
MarMar81 (Registered) 16-12-2010 11:26

Ciao Zacheo, credo che Stefano volesse condannare l'uso indiscriminato della parola "umanità", cercando di ridurre molte delle dinamiche internazionali a questioni tra singoli popoli e stati e non di tutti gli esseri umani intesi come unicum. Per il resto è vero, su alcune questioni bisogna naturalmente fare dei distinguo perché i danni provocati alla biosfera dall'industrialismo si ripercuotono a cascata su tutti. Ma l'intento di Stefano - almeno credo - era condannare la tendenza totalizzatrice del discorso politico contemporaneo, per riscoprire il senso di "localizzazione" dell'azione politica.
Stefano DAndrea (Registered) 16-12-2010 14:41

@Zacheo01
Come ho spiegato nel testo, la critica riguardava il concetto di umanità come "società umana", come insieme degli uomini e popoli che vivono sulla terra. Come termine che designa ciò che sarebbe proprio (sotto il profilo biologico o della coscienza morale o di altro)di tutti gli uomini e solo degli uomini, forse il termine si può anche accettare, anche se non credo che si sottragga alle critiche che possono svolgersi al concetto di "cavallinità", sul quale si soffermava Platone. A parte i noti dubbi se gli animali abbiano "concetti", se ragionano, se hanno una coscienza morale, e così via.

Gli eventi ai quali fai riferimento colpiranno anche essi in modo differente i popoli: la desertificazione e la riduzione delle terre coltivabili non riguardano certamente tutti i luoghi della terra, né si verificheranno ovunque contestualmente. Sono problemi di alcuni popoli, che, in risposta, possono modificare le abitudini; organizzarsi utilizzando la tecnica; migrare in massa verso altre terre; invadere altri popoli.
Nemmeno i flussi migratori sono un problema dell'umanità. Alcuni popoli hanno il problema di limtare le "uscite" altri di far aumentare le "entrate di gente acculturata"; altri di limitare le eccessive entrate; altri di evitare il passaggio; e così via. E anche le quantità dei fenomeni sono diverse da luogo a luogo. Inoltre la maggiore o minore crescita economica finirà per influenzare la direzione dei flussi.

L'unico esempio critico è il cambiamento climatico. Ma a parte che io sono convinto che la terra sarà ancora fertile, in qualche parte, quando l'ultimo uomo sarà morto (insomma la terra sopravviverà all'uomo) e soprattutto non ho conoscenze per sapere se un significativo cambiamento climatico sia già in atto (o almeno non ne ho più di quelle che spingevano i braccianti nel medioevo a credere a ciò che i frati raccontavano sulle reliquie), credo che anche esso si manifesterà, se si manifestrerà, in momenti o forme diverse da luogo a luogo e chi sa se, almeno per un certo periodo, per ragioni tecnico-scientifiche, non vi siano popoli che trarranno beneficio dal cambiamento climatico.

In ogni caso è già tanto difficile tenere insieme grandi stati come la Cina, Stati Uniti o l'ex Urss, che non non vedo per quale ragione si possa pensare alla creazione di una organizzazione politica dell'umanità. Impiegheremmo millenni e durerebbe un secondo.

Uno degli elementi della globalizzazione è che ci hanno fatto credere che siamo cittadini del mondo. Io credo che non sia vero. La maggior parte delle persone è saldamente radicata a una terra, a una lingua, a una storia e a una cultura. Gli altri, una estrema minoranza, sono piuttosto apolidi che cittadini del mondo. E sebbene siano sovente pieni di intelligenza e di conoscenze, hanno una dissociazione simile alla malattia tipica dei figli dei diplomatici che si riconosce appena per qualsiasi ragione ti capita di conoscerli. Diverso è il caso, invece, di chi abbandona una terra e una cultura per sceglierne un'altra. Qui il radicamento, magari dopo momenti di smarrimento, continua ad esistere.
max (IP:79.41.96.197) 16-12-2010 15:13

Mi trovo tendenzialmente in linea con stefano d'andrea e con il suo articolo, del quale condivido le ragioni. Tuttavia questo è un discorso che vale per principio, ma noi uomini moderni non possiamo non fare i conti con la dissoluzione della quale noi stessi siamo figli. Dobbiamo avere il riferimento giusto, indicatoci dalla cultura antimoderna, ma non possiamo liquidare tout court come non esistente l'umanità. Sarà anche un errore, ma è un errore con quale siamo stati svezzati e che ci è entrato dentro oramai. La mia sensibilità mi porta lontano da quella di un uomo arcaico o tradizionale. Non posso considerare insignificanti le sofferenze di un uomo solo perchè proveniente da una terra lontana, sia essa l'arabia, la thailandia o l'oceania. Per me uomo moderno, il termine "essere umano" ha comunque un valore, anche se riconosco quanto tale visione sia artificiale e per certi aspetti disumana. Nessuno di noi ne può fare a meno. Riportare l'antimodernità ex abrupto nei tempi moderni ci farebbe correre il rischio di (ri)percorrere strade terribili. L'uomo antico aveva anche le medicine per curare i mali che scaturiscono da una mentalità interamente localista, non dimentichiamolo. Occorre una visione di compromesso, neccessaria anche dalla controparte, nella fattispecie per chi viene da sinistra e ha di suo un approccio universalista, in modo da trovare un equilibrio proficuo, ed è quello che spero si comincerà a fare a partire dal 18 dicembre.
zacheo01 (IP:82.76.204.29) 16-12-2010 17:12

@ Stefano

Mi sembra chiaro che e' altamente condivisibile il fatto che non esiste una societa' umana tout court, ma piu' societa' diversamente articolate ed organizzate.
E' difficile pero' affermare che tali societa', pur diverse, e composte da individui appartenenti al genere umano, non costituiscano nell'insieme una (evviva iddio variegata) umanita'.

Senza entrare nello specifico degli esempi fatti, mi sembra pero' che non ci si possa fermare nell'analisi al singolo accadimento ma occorra guardare il processo che si avvia. Seppur nelle prime fasi esso non riguarda geograficamente e localmente tutti gli individui, questo non vuol dire che nel suo sviluppo non possa apportarre conseguenze anche indirette ad altri individui. A questo punto pero' la discriminante sarebbe quantitativa: quanti singoli individui dovrebbero essere direttamente o indirittamente coinvolti in un processo per poter affermare che tale processo riguarda l'umanita', ossia il genere umano?

Anche nelle giuste affermazioni che hai fatto riguardo i processi migratori, se non ho mal capito, colgo pero' lo stesso limite: le varie sfaccettature del fenomeno riguardano le sole comunita' ed individui che le affrontano, o il problema considerato nel complesso diviene un fenomeno che interessa l'umanita', sempre interessa come genere umano?
Anche qui si dovrebbe ricadere nell'analisi quantitativa, eppero' essa puo' far sfuggire la sostanza del problema.

Altra considerazione: il fatto che miliardi di persone soffrano la fame, e' un problema di quelle persone, o e' un problema dell'umanita'? Qui l'analisi quantitativa sarebbe di aiuto, e dovrebbe indurci a pensare quantomeno che sia un problema che affligge una grossa parte dell'umanita' (genere umano). Ma se passiamo agli stati d'animo, e pensiamo a un sistema di valori guida basato sulla solidarieta', per cui tale problema e' intollarabile, il problema riguardera' inevitabilmente l'umanita' intera, perche' sarei portato a pensare che esso riguardi tutti, ossia: tutti gli individui che ne soffrono materialmente; tutti gli individui che non ne soffrono materialmente ma si adoperano nel combatterla, tutti gli individui che non ne soffrono materialmente e non fanno nulla per combatterla. Ecco, in tal senso, sotto diversa ottica, il problema riguarda tutta l'umanita'.

Quanto all'organizzazione politica delle societa' ed alla globalizzazione, credo ci sia poco da discutere con chi come me sposa le idee di MZ, quindi siamo d'accordo.
Quindi anche io credo che non siamo cittadini del mondo.
Pero' l'errore che credo non si debba commettere e' quello di non vedere la realta' per quella che e', solo per il semplice motivo che non ci piace.
No, non siamo cittadini del mondo, ma per come gira il mondo oggi e' purtroppo difficile pensare che un problema locale non diventi poi un problema globale con conseguenze, se non sull'umanita', su una gran parte di essa.

Cordialmente
Stefano DAndrea (Registered) 16-12-2010 18:54

Apprezzo molto la volontà di "mediazione" di Max. Anche io vengo da sinistra e so, per esperienza diretta, che è difficile superare l'impostazione universalista. Si ha la sensazione di diventare più aridi, quasi cinici, comunque meno buoni, quasi che le sofferenze che si verificano in altri luoghi non ci riguardino.
Per superare l'universalismo è quindi necessario constatare che quella sensazione è illogica: è una sensazione insensata.
Non intendo dire che per me è più importante che tornino limpide le acque del fiume Liri, nelle quali io possa bagnarmi assieme ai figli, anziché evitare la morte di cinquanta cittadini afghani bombardati dagli eserciti invasori. Intendo dire che per il fiume liri forse, assieme ad amici e compagni, posso fare qualche cosa. Per i cittadini afghani posso soltanto cercare di votare (o concorrere a costituire) partiti che propongaano il ritiro dell'esercito italiano dall'invasione dell'afghanistan. E, purtroppo, una volta che l'esercito italiano si sia ritirato posso soltanto inasprire i rapporti diplomatici e commerciali con gli stati che continuano la guerra. Meno ancora, e anzi quasi niente, posso fare quando si combattono due paesi per antiche questioni di confine. E assolutamente niente devo fare quando uno stato combatte contro secessionisti, perché non devo interessarmi di faccende interne agli stati (se vincerà il primo ci sarà ancora un solo stato; se vinceranno i secondi, gli stati saranno due). Insomma è solo qui in italia che io posso agire, quando posso agire. Una volta compreso ciò, nessuno intende escludere che si debba soffrire per le sventure di persone lontane.
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