Centocinquant'anni

24 gennaio 2011

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Si può già notare che le celebrazioni per il 150° anniversario dell’unità d’Italia si muovono su due direttrici. Una è quella della rievocazione retorica: la lotta di popolo, la generosità eroica di Garibaldi, il sacrificio dei martiri, l’idealismo di Mazzini, l’intelligenza politica di Cavour;  la Chiesa contraria solo perché i papi continuavano a pensare che il potere temporale fosse necessario a garantire l’indipendenza spirituale, ma fra il clero erano diffusi i sentimenti patriottici. Questo tipo di rievocazione non fa altro che riproporre il mito fondante che, come tutti i miti, su una base di verità costruisce una leggenda.
L’altra è quella della revisione critica, che da una parte rivaluta il sud borbonico per denunciare la colonizzazione piemontese, dall’altra stigmatizza un processo unitario che, invece di dar vita a un’Italia federale, ha caricato la nuova nazione della zavorra di un sud miserabile, arretrato e mafioso.
Da parte nostra, questi discorsi non ci convincono né ci emozionano. Il mito fondante è stato da tempo smantellato. Il cosiddetto Risorgimento fu opera di minoranze, egemonizzate dalla massoneria e che non sarebbero riuscite nel loro intento senza l’apporto dell’esercito piemontese, a sua volta in combutta con la massoneria internazionale e pedina delle mire francesi e della diplomazia inglese. Garibaldi fu abilmente manovrato e strumentalizzato da quelle forze, Mazzini fu bollato come bandito e terrorista, ancora costretto alla clandestinità quando già l’unità d’Italia era un fatto compiuto. Il popolo, nella stragrande maggioranza formato da contadini analfabeti, fu sostanzialmente estraneo e indifferente oppure ostile ai moti risorgimentali. Ci fu qualche episodio di partecipazione popolare che vide protagonisti artigiani, giovani e borghesi delle città, in mezzo a campagne inerti. Moti contadini accompagnarono la spedizione dei Mille, ma avendo sùbito assunto il carattere di una rivolta contro la proprietà fondiaria, vennero repressi a suon di fucilazioni dagli stessi garibaldini. Del resto, se fosse vera la leggenda della grande partecipazione popolare alla liberazione dei poveri cafoni dal giogo borbonico, non si capirebbe il fenomeno del cosiddetto brigantaggio, una vera e propria rivolta contro i piemontesi “liberatori”. Si notino le date: l’impresa dei Mille è del 1860, l’inizio della ribellione che dilagò in tutte le regioni del Meridione è del 1861. Se ci fosse stato tanto entusiasmo per gli “italiani” liberatori, non si sarebbe consumato nel giro di un anno. L’Italia unita è nata con quella guerra fra nordisti e sudisti, con i rastrellamenti, le fucilazioni, il terrore, negli stessi anni, 1861-65, in cui al di là dell’Atlantico si consumava un’altra feroce guerra fra nordisti e sudisti. Il fatto è che le condizioni di vita già terribili sotto il regime borbonico, che è bene non rivalutare acriticamente se non vogliamo cadere in un passatismo oscurantista, peggiorarono ulteriormente col passaggio alla nuova Italia borghese e liberale. L’abolizione dei dazi portò alla rovina la nascente e debole industria meridionale, incapace di reggere alla concorrenza sui mercati; il fiscalismo divenne ancor più rapace; la leva obbligatoria fu accolta dalle plebi contadine come una maledizione; la politica antiecclesiastica della borghesia massonica al potere, abolendo istituzioni religiose che, pur paternalisticamente e in funzione di controllo sociale, assistevano i più poveri con pratiche caritatevoli, non fece che aggravare le condizioni dei più svantaggiati. Perfino al nord ci fu chi rimpianse l’assetto di un tempo. In Veneto e successivamente e più diffusamente nel Trentino, si ebbe modo di confrontare amaramente la buona amministrazione austriaca e quella italiana (e addio bel Trento...). L’irrompere della modernità capitalista del nuovo stato unitario conoscerà i fasti dell’industrializzazione ma anche gli sconvolgimenti che spinsero ogni anno centinaia di migliaia di giovani a cercare fortuna al di là dell’Oceano, portando con sé drammi umani e sofferenze spesso inespresse.
Tutte queste considerazioni non vogliono negare valore al processo di unificazione politica della penisola. La formazione degli Stati nazionali era un portato storico inevitabile nella logica della modernità e di una borghesia che doveva abbattere dazi e chiusure regionalistiche per allargare i mercati ed espandere gli affari. Nemmeno il fatto che fu opera di minoranze sostenute dall’esterno deve sminuirlo. Pressochè tutte le grandi svolte politiche sono opera di minoranze che si mettono alla testa di moti spontanei e confusi di ribellismo i quali senza quella guida svanirebbero ben presto nel nulla.
L’Italia unita ha avuto i suoi meriti e ha lasciato la sua impronta nella storia. Nonostante le durissime lotte politiche fra neutralisti e interventisti, nella Grande Guerra i nostri fanti diedero buona prova nelle trincee e dimostrarono che uno spirito patriottico unitario si era consolidato. Successivamente, il fascismo poté essere letto anche come il tentativo di rinsaldare ulteriormente l’unità nazionale, nonostante lo facesse con la retorica ultranazionalista e bellicista della Romanità Imperiale, tanto più grottesca quando era rivolta a quel meridione che restava “uno sfasciume péndulo sul mare”.
Quello che non viene detto è che la storia travagliata ma anche nobile della nostra indipendenza nazionale è finita l’8 settembre del 1943. L’Italia che scaturì da quel disastro si è data un altro mito fondante, quello della Resistenza e della Costituzione, più debole e più falso del mito risorgimentale. Si è voluto occultare il fatto che siamo eterodiretti dalla finanza internazionale e che ospitiamo i soldati, le basi, le flotte, gli aerei e le bombe nucleari dei nostri padroni. Qualcuno avrà il coraggio di dirlo nelle celebrazioni del 150°? E chi si appella allo spirito patriottico degli eroi del Risorgimento per esorcizzare i fantasmi della secessione, avrà l’onestà intellettuale di ammettere che nell’Europa dei mercanti e degli usurai anche quel poco che restava della nostra indipendenza è già stato smantellato e che ci attende lo stesso destino del ricatto che obbliga greci, irlandesi, iberici, a tagliare drasticamente servizi sociali, pensioni, stipendi? E cosa dire della difesa della Costituzione repubblicana e democratica, la più avanzata del mondo secondo i nostri progressisti, quando i trattati europei la vanificano in parte?
Per quanto ci riguarda, ci ostiniamo a coltivare ideali antichi, forse gravidi di futuro più di tanti appelli al realismo. Dopo lo sconvolgimento che dovrà travolgere gli attuali assetti, vorremmo un’Europa con un potere centrale autorevole, reso venerabile da un’aura di prestigio sacrale oggi impensabile ma esperienza vissuta dai popoli in epoche non lontanissime, con una forza armata comune, rispettosa di larghissime autonomie regionali e di costumi locali che inevitabilmente ingloberanno anche le tradizioni di quegli immigrati che ne stanno cambiando il volto, in una nuova sintesi oggi imprevedibile; in questa nuova Europa delle regioni, l’Italia sarebbe una realtà linguistica e culturale, federata al suo interno e al contesto europeo, ricchissima di tutta la sua storia gloriosa.
È, adattato ai tempi nuovi, l’ideale del medioevo ghibellino e dantesco. Un ideale antico, ma forse capace di volare più alto del vecchiume risorgimentale, resistenziale e costituzionale. L’alternativa non è l’attuale Comunità Europea, già morente, ma l’uscita dell’Europa dalla storia, travolta da un’ondata che ne farebbe anche politicamente quello che è geograficamente: una piccola appendice della grande Asia.

Luciano Fuschini

Commenti
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simone.org (Registered) 24-01-2011 11:44

Il richiamo al secondo mito fondante, quello della Resistenza, è tanto più significativo perché ancora relativamente vicino nel tempo e perché ci sono molte persone ancora viventi che vi parteciparono. Loro più di tutti sanno quanto sia falso ciò che si racconta.
Personalmente disprezzo il mito della resistenza al di là del giudizio che si può dare di fascismo e antifascismo proprio perché, de facto, la resistenza fu guerra civile che ruppe la coesione del paese e lottò per consegnare al ladro le chiavi di casa per farlo entrare a svaligiare.

Chiaro che, con un punto di vista del tutto artificioso, si può ribaltare del tutto l'aspetto della resistenza e proporlo come momento positivo di coesione...
sillarion@libero.it
MarcoFerr (Registered) 24-01-2011 13:15

Una boccata d'aria pura tra i miasmi di retorica che si stanno sollevando in questi giorni.
Splendido articolo, come sempre.
Grazie Luciano.

Marco
paolo883 (Registered) 24-01-2011 21:42

Il termine brigantaggio è una delle tante, forse anche una delle più grosse, mistificazioni che ci raccontano a scuola nell'ora di storia (in cui io dormivo della grossa, forse intuendo che mi stessero raccontando solo balle).

Sinceramente non capisco cosa ci sia da festeggiare. Oggi l'Italia è un paese morto, senza idee, senza prospettive, senza aspirazioni, dove chi comanda è generalmente solo preoccupato di non perdere i propri privilegi e i propri diritti acquisiti. Il nostro presidente è la metafora più perfetta del tempo in cui stiamo vivendo, completamemnte in balia della propria decadenza, ricattabile all'inverosimile e circondato da tirapiedi che cercano solo di arraffare il possibile senza neanche più la decenza di salvare la faccia.
aragorn (IP:81.75.53.91) 24-01-2011 23:43

Nel Regno delle due Sicilie non vi erano "condizioni di vita terribili".
Anche questo è un mito imposto dai vincitori al fine di creare la retorica patriottarda e risorgimentalista necessaria al nuovo Stato unitario, mirabile erede del diffamatore inglese Lord Gladston e della sua "negazione di Dio". Queste falsità appartengono alla stessa categoria delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. Il Sud Italia era incontestabilmente la parte d'Italia più civile e prospera. I suoi primati finanziari, sociali, economici, industriali, sanitari, artistici, sono inoppugnabili ci si riferisce a fonti storiche certe, invece che alla storia scritta dai vincitori. Ed è ora di cestinare anche questi stereotipi sulla buona amministrazione austriaca; il Veneto e la Lombardia erano terre italiane occupate. L'Italia unita era inevitabile, quello che si poteva evitare era l'impostazione coloniale e da sfruttamento che il baricentro massonico finanziario insediatosi nel Nord Italia operò nei confronti del Sud, che fino ad allora aveva vissuto una età di splendore assoluto. Rinvio l'approfondimento ad un prossimo scritto.
vittoriodigiacinto@gmail.com
Di Giacinto (Registered) 25-01-2011 15:53

Difficilmente in questo anno ci sarà un articolo così esaustivo riguardo all'argomento, grazie Luciano.
Fabio Mazza (Registered) 25-01-2011 18:00

Fuschini assolutamente perfetto.
Salve Aragorn. Mi stupisco che proprio tu attacchi l'austria-prussia.. io sono assolutamente d'accordo con il modello prussiano,tant'è che nella guerra del 15-18 ritengo che abbiano combattuto dalla parte sbagliata,come diceva tra l'altro il barone..
aragorn (Registered) 25-01-2011 18:24

@ Fabio
Io non ho attaccato l'Austria, semplicemente affermavo che il Veneto e la Lombardia fossero terre italiane occupate. Per il resto ovviamente concordo, con te e con il Barone ... (ricordati la maiuscola) mio Avo non solo elettivo, sempre ricordato nelle invocazioni ai Lari, ai Lasi ed ai Penati.
Fabio Mazza (Registered) 25-01-2011 18:35

Refuso imperdonabile..Ora mi incuriosisci con questa storia dell'avo non solo elettivo!
Si rafforza la mia convinzione che Napoli sia fondamentale per l'esoterismo e per il paganesimo. Dal gruppo dei dioscuri,a "Ciro Formisano". Non credi che il nostro culto deorum,o pietas che dir si voglia,sarebbe stato giudicato "exoterico" o in parte devozionale dal Barone?
Saluti
MarMar81 (Registered) 27-01-2011 10:53

Sono d'accordo sul fatto che, dal punto di vista storico, il processo unitario italiano fosse inevitabile.
Su questo lancio un piccolo spunto di dibattito allargando l'orizzonte alla Germania, che si unificò una decina d'anni dopo sotto la guida della Prussia (stato per il quale provo ammirazione).
Italia (del Nord) e Germania infatti vivevano sostanzialmente le stesse divisioni politiche che avevano vissuto per secoli, quando i vari staterelli regionali facevano parte - chi più chi meno, specie nel caso italiano - della "grande famiglia" imperiale del S.R.I., venuto meno definitivamente, dopo un lungo periodo di crisi, nel 1806.
Nella seconda metà dell'800, con qualche fisiologica differenza, la regione italiana e quella tedesca erano ancora strutturate sul modello imperiale (anche se l'Impero non c'era più), quello che Fuschini, se non l'ho frainteso, evoca a fine articolo come modello più auspicabile per il futuro del Continente (mi associo). Non a caso prima che i plebisciti determinassero la nascita del regno d'Italia, stati come la Toscana, Parma, Modena, Lucca (e nell'area basso-tedesca la Baviera, Baden, Wurttemberg) erano a vario titolo nell'orbita dell'Austria, che si proponeva come erede naturale del S.R.I.
Per raggiungere l'obiettivo europeo auspicato da Fuschini, che sarebbe utile proporre anche in sede Uniti e Diversi come "gruppo di lavoro", credo che sia necessario ripartire da lì, dalle storiche radici imperiali che abbiamo noi italiani (ma anche molti altri popoli dell'Europa centrale) nel nostro dna culturale (giustamente nell'articolo si cita Dante), allo scopo di proporre un modello convincente e credibile per l'Europa che verrà.
fosco2007@alice.it
lucianofuschini (Registered) 27-01-2011 13:41

@ MarMar81.
Non mi hai affatto frainteso, anzi ti ringrazio per la lettura attenta di quanto ho scritto, come ringrazio tutti i commentatori e i lettori. Siamo nella stessa ottica. L'Europa che auspichiamo è di là da venire ma non è un'utopia. Ciò che fu può essere.
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