Il "relativismo" culturale

6 giugno 2012

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Si dice spesso che il motivo per cui l'Occidente omologa il mondo intero -oltre che la difesa dei propri interessi politici ed economici- è la convinzione di essere in possesso dei valori assoluti, gli unici veri, che devono essere diffusi ovunque per motivi morali, ossia affinchè il maggior numero di gente possibile sia affrancata dai retaggi di intollerabili servitù. Pertanto, a fronte dell'inarrestabile processo di omologazione planetaria, si afferma da più parti che bisogna riscoprire le diversità, e poichè il mondo prima dell'avvento della modernità era ricco di diversità spesso in contrasto e in contraddizione tra loro, talora si dice che bisogna imparare a considerare i propri valori come "relativi" e non assoluti. Talvolta addirittura gli antimoderni si definiscono "relativisti". A mio parere l'utilizzo corrente dei termini "relativo" e "assoluto" spesso non è corretto, e credo che sia il caso di fare alcune precisazioni. Innanzitutto, se è innegabile che il mondo premoderno era caratterizzato da una pluralità di forme e di nomi, tuttavia non concordo sull'affermazione che tali società si basassero su valori "relativi", nel senso che esse si creavano da sè i propri valori che andavano poi a costituire il fondamento delle società stesse. E neppure, il che fa lo stesso, che tali valori erano creduti assoluti ma in realtà, ad uno sguardo obiettivo, non lo erano. Le cose a mio avviso stanno diversamente. I princìpi costitutivi delle società tradizionali erano identici ovunque e in ogni tempo. In tutte le società antiche la dimensione sacra occupava il centro assoluto della vita collettiva, mentre quella economica occupava un ruolo secondario. Oltretutto il più delle volte questa non era mossa dal profitto, bensì dalla sussistenza, ossia detto in parole povere, l'economia serviva per vivere dignitosamente e non di più. Le forme in cui l'economia si conduceva erano molteplici certamente (l'autoproduzione, la redistribuzione, il baratto, il dono, lo scambio monetario senza profitto) ma le finalità economiche in tutti i casi non si allontanavano quasi mai dalla sopravvivenza. E anche nel caso di scambio di merci preziose, era sempre l'uso immediato del bene a spingere il commercio, e non il profitto: l'economia manteneva quindi, in tutte le culture, un contatto diretto con la realtà -con il valore d'uso diremmo oggi- anche quando si commerciavano spezie, unguenti o tappeti preziosi; solo nel mondo classico questo principio venne infranto, ma si trattava già di una società per molti aspetti vicina alla nostra. Tali caratteri universalmente validi non si sposano bene con una presunta ottica "relativa" delle società tradizionali. Semmai sarebbe da individuare una sorta di "policentrismo" per cui, attorno a un fulcro assoluto e universale della società - che si esprimeva perlopiù attraverso la continuità con le tradizioni del passato al fine di ottenere la stabilità interna e l'equilibrio con il mondo esterno- si sviluppava una pluralità di caratteri, limitati però alle forme esteriori, oppure a tutti quegli aspetti del vivere che venivano visti come secondari, come la morale, i costumi sociali, le abitudini. Il centro assoluto quindi non mancava mai, e semmai era proprio il riconoscimento della sua assolutezza (dal latino ab-solvere: slegare, sciogliere, liberare) a permettere la convivenza con una molteplicità con cui poteva convivere senza problemi. Non possiamo del resto ignorare che molti studiosi moderni (da Guenon a Evola, da Eliade a Jung, per esempio) hanno richiamato l'attenzione sul fatto che le diverse culture del passato, anche lontane e assai diverse fra loro, avevano quasi sempre un nucleo comune in cui le varie visioni filosofiche, simboliche, mitologiche e spirituali si avvicinavano fino a coincidere. D'altra parte se la soluzione all'omologazione e la base per l'affermazione delle diversità fosse il relativismo, per questo stesso criterio non ci sarebbe modo da parte nostra di creare una gerarchia tra i valori moderni e quelli premoderni, che finirebbero pertanto per avere la stessa dignità: se ogni società si crea da sè i propri valori, anche l'Occidente nella sua storia recente si è creato i suoi, che ha il diritto di tenersi a patto di non ledere il diritto altrui di filarsi i loro. Evidentemente tale approccio non ci può trovare d'accordo.Noi antimoderni invece critichiamo la modernità sulla base della convinzione che le cose debbano andare in un certo modo e non diversamente, seguendo la natura delle cose. Le diversità tra le varie culture poi non seguono alcun tipo di "relativismo"; piuttosto, a fianco di una verità "assoluta" (nel senso già citato di ab-soluta, valida in sè e per sè, slegata dalle contingenze materiali), e a seguito della straordinaria flessibilità dell'uomo dal punto di vista psicologico, culturale, morale ecc, si creano delle variazioni, delle eccezioni, delle particolarità, che non contraddicono tuttavia i princìpi di base. Un esempio lo troviamo nel modo in cui diverse realtà modificavano in passato il corpo umano in base alle proprie tradizioni: che si tratti della fasciatura dei piedi delle donne cinesi oppure degli orifizi traforati di molte società tribali, il corpo umano è uno: ciò non toglie che la sua grande flessibilità gli permetta di assumere varie forme. Per la cultura vale lo stesso criterio. Vale la pena ricordare al contrario che quando l'Occidente impone i propri valori, illuministi e moderni, a tutte le realtà con cui viene in contatto, non significa affatto che li senta come "assoluti"; semmai come "totalitari", che è una cosa diversa. L'imposizione e la diffusione dei nostri valori in tutto il mondo suona più come l'imposizione di un vero e proprio relativismo che l'affermazione di un'assolutezza. Sono i princìpi dell'illuminismo infatti ad essere veramente "relativi": secondo il principio di uguaglianza ogni individuo è relativo a tutti gli altri (affermare che ciascuno sia il centro è di fatto come negarlo); il principio di libertà afferma che il valore di ogni individuo non deriva da Dio o dalla propria natura, ma è relativo a ciò che fa e a ciò che pensa; la conoscenza scientifica non definisce un sapere assoluto, valido in sè e per sè, ma un insieme di visuali, spesso slegate tra loro, che traggono la loro validità dal funzionamento dell'esperimento e dall'efficienza dell'applicazione successiva.  Si arriva quindi alla conclusione -inaspettata e quasi paradossale- che è il "relativo" a creare un apparato solo in apparenza rispettoso, ma di fatto onnipervasivo e privo di vie d'uscita -totalitario appunto; laddove, al contrario, l'assoluto -quell'assoluto che l'uomo moderno non riesce più a comprendere e che è fonte inesauribile di incomprensioni- definisce in modo inequivocabile quel "centro", oramai distrutto, attorno a cui le diversità si collocano, e definiscono il valore dell'esistenza dell'uomo e del suo stare insieme.

Massimiliano Viviani

 

Commenti
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Drachen (Registered) 07-06-2012 13:55

molto ottimista.
secondo me non si può dire che la "dimensione sacra" sia un comune denominatore valoriale delle società tradizionali per il semplice fatto che la "dimensione sacra" era completamente differente da un popolo all'altro. punti in comune certo, ma valori conseguenti spesso inconciliabili (e che non raramente si tradussero in conflitti armati).
Condivido tutto l'impianto del discorso premoderno dell'articolo, ma il relativismo culturale è semplicemente la presa di coscienza che i propri valori hanno valenza relativa al contesto.
Il discorso contro la modernità non è più uno scontro valoriale, perché la modernità (per le ragioni economico-centriche) è (a)valoriale. Cioè è priva di valori (e quindi di dimensione sacra).
Se gli islamici sono universalisti, per quanto abbiano sacralità al centro della loro esistenza, è solo il relativismo culturale a farci da scudo filosofico contro la pretesa di imporre la loro visione al mondo.
L'illuminismo poi pone valori assoluti individualisti, non relativizza la comunità. Quindi per forza di cose non dice ad un uomo di credere a ciò che vuole (nichilismo), ma nelle sue declinazioni positiviste mette giù ben chiare delle priorità anticomunitarie sull'universalità dei valori (chi ha detto "Diritti Umani"?).
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