Re e padroni

24 luglio 2012

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Questo articolo è apparso su Appelloalpopolo del 28-6-2012 (N.d.d.) 

C'era una volta la monarchia. Nella semplice suddivisione in caste del sistema feudale il re rappresentava l'incarnazione divina. In quanto tale era in grado di guarire i malati. Infatti si chiamava anche re taumaturgo. La semplicità di questa scala sociale culminante nel re, lasciava ben pochi spazi interpretativi: se le cose andavano bene era merito del re, se andavano male era colpa del re. Certo, in quest'ultimo caso marchesi e baroni avevano le loro belle colpe, ma in fin dei conti erano emissari del re, cui andavano ascritte tutte le responsabilità del caso. Era lui a decidere in ultima istanza, mica i marchesi. Quelli dovevano solo obbedire. Per i più pignoli: sì lo so, non tutti i re erano taumaturghi e non tutti comandavano sempre e comunque. Anche il nostro ultimo re ricevette precisi ordini e ubbidì. Ma quando succede che il re ubbidisca a qualcuno l'incantesimo del sistema feudale si spezza, la carrozza ridiventa zucca e si rimescolano le carte. Fino a quel momento cruciale la diretta corrispondenza tra causa ed effetto non viene messa in discussione. Tolta quindi la possibilità di prendersela con dio, restava la concreta possibilità di prendersela con il re. La testa mozzata di Luigi XVI ne è forse l'esempio più conosciuto. Numerosi sono i tentativi di delegittimarlo che la Storia ci ha consegnato: frondisti, decabristi e via dicendo fino ad arrivare ai recenti tumulti nordafricani e mediorientali, con tutti i distinguo del caso. 

Poi succede qualcosa di straordinario: viene eliminato il responsabile primario (il re) ed in sua vece si organizza la responsabilità collettiva. Il re non è più un'emanazione divina, dogmatica quindi indiscutibile: lentamente, attraverso chiari processi storici come i passaggi a monarchia costituzionale e parlamentare, diventa un'emanazione umana, frutto di mediazioni politiche e sociali. Siamo ad un passo dalla moderna democrazia, dove i vertici vengono eletti dal popolo che quindi diventa pienamente responsabile di ciò che gli accadrà. Il processo in atto però non è tanto responsabilizzare i popoli che democraticamente decidono chi mettere ai vertici della piramide sociale attraverso una informazione equilibrata sulle vicende economiche, politiche, culturali etc.. in corso, quanto colpevolizzarli. Una delle frasi che si sono maggiormente sentite ultimamente è: “il popolo mi ha dato mandato e quindi adesso lasciatemi lavorare”. Il che non è nei risultati molto diverso dal “dio me l'ha data e guai a chi la tocca” (la corona): l'intervento divino viene sostituito dalla (manipolata) volontà popolare. Sparisce così la responsabilità dei vertici ed in sua vece, in caso di contrasti sociali, viene giocata la carta dell'incapacità degli sconfitti di riuscire a convincere un disinformato popolo, unico vero garante della propria libertà. Scusate se è poco.   Poco importa se l'offerta cui il popolo deve aderire sia poco o nulla interessante per gli interessi del popolo stesso. E nessuno si azzarderebbe a criticare il fatto che un'offerta politica monocorde sia un vulnus di rappresentatività. Ciò che conta è che i vertici siano intercambiabili, e che l'evanescenza della loro responsabilità abbia sostituito la precedente chiarezza.

Sia chiaro, non sono monarchico, ma vedo che nel passaggio tra monarchia e repubblica non sono state attivate quelle procedure che permettono al popolo di maturare una coscienza civica e sociale indispensabile per una democrazia che funzioni. Il vero nemico (chi gestisce il capitale) si nasconde così dietro a fumose dichiarazioni di principio e a pessime regole che lo salvaguardano, facendo passare per plausibile la casta di politici che difendono- con attività spesso over the counter (di paramercato cioè)- gli interessi delle élites a scapito di quelli della popolazione. 

Se le cose dal punto di vista politico sono torbide, non vanno sicuramente meglio dal punto di vista lavorativo. Il padrone di pochi decenni fa, che incarnava meravigliosamente la figura del signorotto locale (marchese, conte…) e che andava al tempo stesso rispettato e combattuto in una contrattazione paritaria tra salariati e padronato, oggi deve cedere il passo alla rivoluzione finanziaria in corso. Succede così che mentre fino a pochi anni fa i lavoratori se la prendevano con il padrone in quanto depositario ultimo delle verità salariali, oggi gli offrano spesso un sostegno per continuare a far funzionare l'attività da cui dipende la sopravvivenza di tutti. Il sociologo Luciano Gallino nel suo ultimo libro sostiene che il conflitto in atto non è più tra lavoratori e padroni ma tra il ceto dei ricchi (vincenti) contro quello dei poveri (perdenti). Succede sempre più spesso che anche i padroni, schiacciati dalle politiche neoliberiste, si trovino improvvisamente a dovere fare i conti con una progressiva diminuzione di accesso alle risorse: sono diventati poveri come i dipendenti. Inutile quindi prendersela con chi è sull'orlo del suicidio per rivendicazioni di qualsiasi tipo [...]

Non sono i politici né i padroni ad essere responsabili dell'attuale stato di cose ma una serie di astrazioni, una più astrusa ed improponibile dell'altra. Né possono mancare i soliti colpevoli: siamo NOI che abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi, non i banchieri ed il sistema mediatico-pubblicistico che ce l'hanno prima proposto (imposto?) e poi garantito per assecondare i loro interessi; NOI che abbiamo eletto quella classe politica, NOI che abbiamo creduto ai messaggi che ci sono stati inculcati e infine NOI che abbiamo il brutto vizio di mangiare tre volte al giorno.

Tonguessy    

 

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