Sappiamo ancora parlare?

26 luglio 2012

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Questo testo è la sintesi di un articolo apparso su Rassegna Stampa di Arianna del 2 luglio 2012 (N.d.d.) 

Si direbbe, almeno stando alle apparenze, che mai nessuna epoca è stata dominata dal regno della “chiacchiera” (per adoperare un’espressione heideggeriana) quanto lo è la nostra; che mai, come nella società attuale, la gente parla, parla, parla in continuazione. L’uso e l’abuso quotidiano dei telefonini cellulari rafforzano questa impressione; è sempre più raro, infatti, non imbattersi in qualcuno, pedone, ciclista o automobilista, che non vociferi più o meno animatamente al telefono mentre va per la sua strada, magari alzando la voce e gesticolando nella via deserta, con effetti quasi surreali. Addirittura, può capitare, e anzi capita con sempre maggiore frequenza, che il nostro interlocutore interrompa di parlare con noi, magari mentre stiamo seduti al bar per fare una chiacchierata fra amici, perché il suo cellulare si è messo a squillare; al che egli, forse senza neppure una parola o un cenno di giustificazione, tralascia la conversazione a faccia a faccia per dedicarsi alla voce sopraggiunta da chissà dove, che chiede e ottiene precedenza assoluta in virtù del mezzo tecnologico di cui si sta servendo.

Ma è proprio vero che si parla ancora, che si sa ancora parlare? Non stiamo insinuando che se non vi è una vera arte della conversazione, non vi è autentico dialogo: questo è un lusso che lasciamo agli oratori forensi; ci basterebbe constatare che le persone comuni sappiano ancora parlare davvero, ossia che sappiano ancora riempire di contenuti effettivi la loro conversazione. Parlare dell’ultima puntata della soap opera televisiva, per esempio, non è parlare, perché non veicola alcun contenuto effettivo; è un parlare di nulla, puramente e semplicemente; un parlare perfino più povero e insignificante del fare qualche bislacca osservazione sul tempo o qualche generica riflessione sulla disonestà dei nostri governanti. Contenuti effettivi di una conversazione sono quelli che permettono, in ogni caso, un autentico scambio di informazioni e un reciproco arricchimento della propria sfera esistenziale, e sia pure a livelli minimi; in questo senso, il problema non è tanto il “che cosa”, ma il “come”. Ad esempio, chiedere a qualcuno: «Come stai?» può esprimere un livello zero di comunicazione, se si tratta di un rito puramente formale e un debito frettoloso che viene pagato alle convenzioni sociali; mentre può corrispondere a un livello alto di comunicazione, se dietro quella domanda traspaiono un sincero interesse per lo stato dell’altro e una empatia non fittizia, ma reale. Perché vi sia autentica comunicazione, non è dunque necessario che si parli di teologia, di filosofia o di etica; bisogna però che si parli con reale interesse di cose che attengono alla sfera esistenziale di sé o dell’altro e che gettino un ponte fra due soggetti ugualmente interessanti alla condivisione del proprio pensiero o dei propri sentimenti. Naturalmente, si può comunicare anche senza parlare, semplicemente con i gesti o con lo sguardo; questo, però, richiede una particolare confidenza reciproca e una speciale sensibilità, che non tutti possiedono. Di norma, comunicare vuol dire parlare, e parlare in entrambi i sensi: dall’io al tu e dal tu all’io; ecco perché né la radio, né la televisione, né il cinema creano comunicazione. Si può discutere se l’uso del telefono crei una vera comunicazione, perché in esso mancano due elementi essenziali, la vicinanza fisica e il guardarsi negli occhi; nelle chiamate video è presente il secondo elemento, assente il primo; nei collegamenti tramite Facebook sono assenti entrambi, quindi vi è l’apparenza e l’illusione del comunicare, ma non l’autentico comunicare: non è tale, infatti, un rapporto in cui non si può sapere chi sia il proprio interlocutore, il quale può ingannarci e spacciarsi per quel che non è, simulando una età diversa, una situazione personale diversa e perfino un sesso diverso da quello dichiarato. Si usa parlare, in tale caso, di comunicazione virtuale, ma sarebbe più esatto parlare semmai di contraffazione della comunicazione.

Questo è un altro punto chiave: perché vi sia comunicazione, è necessario che vi sia, se non proprio la parola assolutamente onesta (il che sarebbe l’ideale, ma presuppone un altissimo livello di consapevolezza), perlomeno un certo grado di verità o, come requisito irrinunciabile, un rifiuto della menzogna sistematica e deliberata.A sua volta, la parola limpida e sincera presuppone lo sguardo limpido e sincero su se stessi: chi non sa guardarsi entro, chi non sa vedersi se non con le lenti deformanti del proprio narcisismo o del proprio disprezzo di sé, non è in grado di parlare realmente con l’altro: la parola è sempre una, che sia rivolta all’interno del proprio io, o che sia rivolta all’esterno; se è limpida, lo sarà tanto nel primo caso che nel secondo. Non si può comunicare davvero con gli altri se non si è capaci di comunicare nemmeno con se stessi. E, così come a monte della retta comunicazione con se stessi vi è la retta visione di se stessi, allo stesso modo perché vi sia retta visione di se stessi, bisogna che vi siano disponibilità leale, capacità di ascolto e, quindi, amore della verità; il che implica capacità di silenzio e di solitudine. Solo chi sa stare in silenzio e in solitudine, è poi capace di stabilire una reale comunicazione con l’altro; è capace, cioè, di scambiare con l’altro cose - pensieri, emozioni, sentimenti - e non solo parole. Scambiarsi vuote parole è chiacchierare, non parlare; dunque, non è comunicare [...]

Colui che non sa ascoltare, non sa nemmeno parlare; perché parlare significa interagire, dare e ricevere, ricevere e dare; chi dà soltanto le sue parole, esercita uno sfogo o distribuisce una predica, non comunica; e chi ascolta soltanto, porge un orecchio misericordioso, o forse rassegnato, ma non comunica, è solo il pubblico delle parole altrui [...]Chi ha fretta non sa parlare; e, dal momento che viviamo in una società dominata dalla fretta, dai ritmi convulsi, dalla pretesa di fare cento cose al giorno (anche se non tutte, a ben guardare, sono poi così necessarie), si arriva facilmente alla conclusione che un po’ tutti, chi più e chi meno, vivendo in questo tipo di meccanismi, abbiamo disimparato a parlare: emettiamo ancora parole dalla bocca, ma questo non è saper parlare; anche un pappagallo ammaestrato sa fare la stessa cosa, ma chi vorrà sostenere che le sue parole sono una forma di comunicazione? Purtroppo, stiamo diventando tutti dei pappagalli ammaestrati; ripetiamo parole e persino frasi, ma non parliamo veramente, non comunichiamo: siamo il prodotto dell’azione quotidiana dei giornali e della televisione, i quali ci rovesciano addosso una quantità prodigiosa di parole, ma, il più delle volte, esse non dicono assolutamente nulla. Perché vi sia un parlare, bisogna che vi siano dei contenuti, per quanto modesti dal punto di vista intellettuale o morale; un parlare senza contenuti è parlar di nulla, letteralmente: flatus vocis, emissione di suoni e basta [...] È quasi inutile precisare che vi sono rapporti consolidati nel tempo, perfino all'interno di una coppia, nei quali non si sa più parlare o, addirittura, nei quali non si è mai realmente parlato [...]

Francesco Lamendola 

 

 

Commenti
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daniela (Registered) 27-07-2012 07:59

Lamendola esprime benissimo quelle che sono anche le mie idee a proposito di comunicazione. Perché vi sia occorre una parola assolutamente onesta, o perlomeno con un certo grado di verità.
Un buon parlare fra persone, su questo blog, c'è stato spesso, pur mancando i presupposti della conoscenza diretta e soggettivamente mi è stato molto utile. Gli stimoli non sono venuti meno giacché gli argomenti proposti fanno molto riflettere. Spero perciò che il dialogo continui, non si interrompa, poiché un maggior grado di consapevolezza aiuta tutti i ribelli a ben operare nella loro vita reale.
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