A misura d'uomo |
12 ottobre 2012 Da Megachip del 6-10-2012, a proposito di un dibattito sul problema del lavoro (N.d.d.) [...] Pierluigi Fagan, in una nota del nostro dibattito, ha giustamente rilevato lo stato confusionale in cui la discussione sulla decrescita si trova. Stato che è confermato da molti degli interventi letti fino ad ora, specificamente da tutti quelli degli economisti intervenuti. Se non si definisce di cosa stiamo parlando, è assai difficile poter raggiungere qualsiasi conclusione. Entrambi non vedono – letteralmente non vedono, essendo esso al di fuori del loro orizzonte concettuale – la necessità di fare i conti con i “limiti allo sviluppo“. Senza vedere questi limiti non si può mettere in discussione il tema dello sviluppo. Che, infatti, è piantato nella loro testa come un chiodo di platino inamovibile. E’ il mondo della fisica, oltre a quello della società umana, ad essere esterno al loro ragionamento. I limiti si collocano in quel mondo, mentre sono assenti dalle astrazioni economiche in cui essi vivono. Quindi, per procedere logicamente, occorre definire il campo dell’indagine: della concreta possibilità di realizzare sviluppo e crescita (che restano sinonimi fino a che non si sarà chiarito che cosa s’intende dire, di diverso dalla crescita del PIL e dalla crescita dei consumi energetici) si può parlare solo confrontando questo desiderio con i vincoli della limitatezza delle risorse, di tutte le risorse, e dopo avere preso atto che cambiare i consumi, senza ridurli, diventerà presto praticamente impossibile. O si dimostra che questa affermazione è errata, oppure si deve affrontare la questione della decrescita. Tra l’altro – e questo ragionamento concerne invece non pochi dei decrescisti, anche dei più sinceri – si dovrà aggiungere anche un altro dato sconfortante: non è soltanto una economia in crescita geometrica ad essere insostenibile, comunque la si voglia presentare. Anche un’economia stazionaria, a crescita zero, è comunque insostenibile alla lunga. Anch’essa porta, sebbene più lentamente, al confine con i limiti, come ha bene dimostrato Luigi Sertorio nel suo “100 watt per il prossimo miliardo di anni“. Puntare a un’economia stazionaria – se non è chiaro, chiariamocelo - equivale a condannare a morte il capitalismo come lo conosciamo oggi. Infatti non c’è capitalismo che non cresce e un capitalismo a crescita zero è una contraddizione in termini. Eppure nemmeno essa sarà sufficiente a evitare una catastrofe strategica. Ma io credo che il compito principale che abbiamo oggi – compito pratico, compito politico – è individuare tutte le soluzioni che ci permettono di ”rallentare il disastro in corso“, cioè di guadagnare tempo per impostare e avviare la transizione..[...] A me appare ovvio che si dovrà passare attraverso tappe intermedie, poiché è letteralmente inimmaginabile una trasformazione di breve periodo. Anche perché ciò che noi vediamo (non parlo ancora di ciò che noi proponiamo) è tale da richiedere comunque un radicale rivolgimento della scala dei valori umani in cui le popolazioni vivono e che conoscono come l’unico possibile. E questo rivolgimento può avvenire in due mondi principali: pacifico, se riusciremo a farlo avvenire come un “ripensamento consapevole, partecipato, democratico“. Oppure violento, traumatico, obbligato, cioè in forme politicamente autoritarie. Chiunque capisce – anche da queste sommarie notazioni – che decrescita, transizione, occupazione ben difficilmente potranno essere risolte “in un paese solo“. Occorreranno strategie di solidarietà regionale, alleanze, misure concordate che non hanno nulla a che fare con l’attuale globalizzazione. L’intera architettura mondiale dovrà essere modificata. Io credo che il problema del lavoro assumerà in questo quadro la valenza in assoluto più grande. Il tema centrale è, già oggi, come creare nuova occupazione qui, in Italia. Tutti gli altri compiti dovrebbero passare in secondo piano, perché si deve “passà a nuttata“. Sapendo che, se non passeremo la nottata in condizioni accettabili da grandi masse popolari, il risveglio sarà duro. Da qui una ulteriore notazione. Io mi trovo d’accordo con chi pensa che queste modificazioni richiederanno un forte e decisivo ruolo dello stato. Le strutture nelle quali viviamo hanno una vischiosità grande, che non potrà essere vinta da mille nicchie conviviali, per quanto positive possano essere le loro esperienze. La loro sommatoria non potrà risolvere il problema. Qui senza politica, senza rappresentanza, non se ne potrà uscire. Un programma di governo, ancora da formulare in tutti i suoi passaggi, dovrà individuare tutti i settori dove questa occupazione sarà creabile, a cominciare dall’agricoltura, da tutte le varianti di risparmio energetico, dal riciclo e recupero dei materiali e delle materie prime, dalla creazione di energia da fonti rinnovabili. Tutto ciò non sarà possibile senza una coerente strategia di investimenti indirizzati là dove è necessario. Ma proprio la complessità dei compiti richiede una nuova partecipazione. Questo Stato attuale non è lo Stato della transizione: è il suo contrario. Dunque si tratterà di agire per ”difendere i territori” e per moltiplicare i centri di partecipazione e di controllo. Anche da qui potranno sorgere miriadi di nuovi posti di lavoro, costruiti e finanziati dalla partecipazione popolare: nella lunghissima serie di servizi integrativi di tipo mutualistico, di solidarietà, di consumo responsabile, di km zero, di monete locali alternative, dovunque le comunità si organizzino per fare fronte alla carenza di welfare pubblico che in molte situazioni esploderà, nella transizione, per mancanza di mezzi. Io credo che il problema del lavoro e dell’occupazione debba essere collocato in un contesto del genere. Che è anche quello dove si ricupera tutta la grande questione del governo dei beni comuni e di quelli pubblici. Un governo che dev’essere dal basso. Non penso che ci debbano essere contraddizioni – tanto meno aprioristiche, ideologiche – in questo percorso. Il criterio unificante dovrebbe essere uno: ogni nuovo posto di lavoro sarà una conquista collettiva e una vittoria collettiva. Giulietto Chiesa
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