Le pretese della tecnologia

13 Febbraio 2013

Image

 

Sintesi di un articolo apparso su Rassegna di Arianna dell’ 1-2-2013. (N.d.d.)

 


La vecchia e ormai stucchevole discussione se la scienza e la sua derivata, la tecnica, siano un bene o un male per la maturità etica dell’individuo e della società, sempre più malamente riesce a celare, dietro i suoi veli pretestuosi, il problema di fondo che si cerca di occultare, proprio sommergendoci sotto un mare di chiacchiere insulse: e cioè che la scienza e la tecnica, o meglio l’odierna tecno-scienza, non sono in grado di salvare nessuno, né l’individuo, né la società, per il loro stesso statuto ontologico; eppure, surrettiziamente, si cerca in continuazione di suggerire proprio questa conclusione, cioè che da esse verrà la nostra redenzione.

La tecno-scienza ci han già aiutati in tante circostanze, dalla lotta alle malattie epidemiche ai trapianti d’organi, e ci ha già reso la vita comoda in tante maniere, allungando, si dice, la sua durata media, che non si esita a suggerire, sia pure in maniera obliqua e indiretta, che essa, prima o poi, riuscirà a sconfiggere anche l’ultimo nemico: la morte; e che, nel frattempo, possiamo fidarci di essa quanto basta per sottoscrivere una cambiale in bianco: dignità, autodecisione, senso morale, tutto può essere accomodato, aggiustato e, se necessario, sospeso, in nome del bene supremo che la tecno-scienza è in grado di offrirci: una vita sempre più comoda, un benessere sempre più grande, una sicurezza tale da coprire quasi tutti i fattori di rischio, che rendevano tanto incerta e tribolata l’esistenza dei nostri nonni e dei nostri progenitori.

Il problema è proprio questo: che la comodità, il benessere, la sicurezza sono stati realmente accresciuti, nessuno lo nega e nessuno potrebbe farlo; ma, insieme ad essi e contemporaneamente, sono cresciuti anche una serie di effetti collaterali, da essi ineliminabili, di segno negativo, che hanno reso la nostra vita più difficile, più problematica, più angosciosa. Si pensi solo, tanto per fare un esempio, alle malattie iatrogene, provocate, cioè, dalle cure stesse o dalle strutture sanitarie, che formano una percentuale tutt’altro che secondarie delle malattie che la nostra tanto vantata medicina moderna si vanta di potere, essa sola, diagnosticare correttamente e curare. Tutto nasce dalla grande illusione e dal grande inganno dell’Illuminismo: che il benessere sia press’a poco sinonimo di felicità; che il progresso porterà a tutti benessere e felicità; che la ragione, la ragione critica e spregiudicata, metterà in moto la ruota del progresso; e che il metodo empirico e sperimentale, formulato da Galilei oltre un secolo prima, sia il solo modo giusto per accostarsi alla conoscenza del reale, il solo che possa dare risultati esatti e, quindi significativi e utili per l’umanità: insomma, il solo capace di realizzare il progresso.

Il metodo empirico e sperimentale, così come è stato formulato da Francis Bacon, Galilei, Cartesio, Newton, e come è tuttora divulgato dalla cultura dominante, parte da una premessa rigorosamente meccanicista: l’universo è una macchina; le sue leggi sono fisse e immutabili; sono anche traducibili in termini matematici; dunque, quello matematico è il solo metodo corretto per porsi davanti alla natura e, per estensione, davanti a se stessi, davanti al prossimo, davanti a Dio (al punto che Galilei, che si ritiene un buon credente, nel «Dialogo sopra i due massimi sistemi» si spinge ad affermare che, quanto alla certezza delle conoscenze matematiche, quella posseduta dell’uomo è pari a quella di Dio stesso).

E poco importa che fior fiore di scienziati e di filosofi, a cominciare da Émile Boutroux, abbiano mostrato, da più di un secolo, tutta l’inconsistenza e la fallacia di una simile armatura concettuale: della pretesa della scienza, in particolare, di porsi come sapere “certo”, e, a maggior ragione, della pretesa della scienza non solo di poter spiegare, un poco alla volta, i misteri della natura, ma anche di potersi ergere a sapere normativo nel campo della ragion pratica, dell’etica; in poche parole, di dirci cosa sia bene e cosa sia male, cosa sia lecito e cosa sia illecito, cosa sia giusto e cosa sia ingiusto, e che cosa noi dobbiamo fare e come dobbiamo regolarci davanti alle scelte che ci si pongono nel corso della vita.

La verità è che nella natura non ci sono affatto delle “leggi”, perché quelle che noi chiamiamo pomposamente leggi  (addirittura costanti e immutabili, secondo Galilei), altro non sono che le etichette che noi applichiamo a una realtà che, nella sua intima essenza, ci sfugge inesorabilmente: il “noumeno” kantiano, l’”in sé” delle cose, di cui non sappiamo nulla, perché, come diceva il buon vecchio Berkeley, “esse est percipi”, essere è l’essere percepito, e tutto ciò che noi sappiamo e conosciamo della natura, in realtà lo conosciamo per mezzo dei nostri sensi, dentro la nostra mente e non “fuori”. E le scoperte più recenti nel campo della scienza, specialmente nella fisica delle particelle sub-atomiche, come il principio di indeterminazione di Heisenberg, altro non hanno fatto che confermare questa semplice verità: non c’è nessuna legge inerente ai fenomeni della natura, anzi, già il solo fatto di osservarli significa agire su di essi e  modificarli. E dunque tali fenomeni non sono nella natura, o, se lo sono, la loro vera essenza sfugge inesorabilmente al nostro sguardo; noi vediamo solo ciò che crediamo di vedere, solo ciò che la nostra mente è in grado di organizzare e i nostri sensi sono in grado di percepire; ma non vi è la minima prova a sostegno del fatto che quanto vi è nella nostra mente e nei nostri sensi coincida con quanto esiste realmente al di fuori di noi, in un supposto regno della natura che esista indipendentemente da noi, che lo pensiamo e che lo osserviamo.

di fiducia nel senso della nostra vita[...]

 

Non si tratta, è vero e lo ripetiamo, di concetti nuovi; Drieu La Rochelle, fra gli altri, lo aveva già detto almeno ottant’anni fa, allorché affermava che l’umanità ha bisogno di ben altro che di macchine, per ritrovare l’equilibrio e la pace con se stessa; pure, nel coro desolante degli asini conformisti che ragliano a comando, tutti insieme, le stesse stupidaggini neopositiviste, imbevute di materialismo grossolano e di meccanicismo ingenuo e superato dai fatti, nondimeno sgradevole e arrogante, il fatto che qualcuno li riprenda e li sappia esporre con sufficiente chiarezza e capacità argomentativa, non può che essere considerato in maniera positiva.

La conclusione a cui necessariamente si arriva, dopo aver preso atto che nessuna tecnica può redimere l’uomo, né potrebbe salvare il nostro mondo, è che la nostra civiltà, nella misura in cui si fonda sulla pretesa, o sull’illusione, che la tecnologia ci possa redimere, sta letteralmente poggiando sul vuoto; e, quindi, che essa è perduta, e noi con lei.

Se vogliamo scongiurare una simile prospettiva, se vogliamo allontanare lo spettro del tramonto, del collasso, dell’implosione, non ci resta altra strada che quella di riconoscere l’errore commesso, di fare ammenda della nostra presunzione, di purificarci con un salutare bagno di umiltà; e ritirare al più presto la cambiale in bianco che, imprudentemente, abbiamo rilasciato al Dio falso e bugiardo della tecno-scienza, investendo quest’ultima di un ruolo che non le compete e che non appartiene al suo statuto ontologico.

La tecnica, per definizione, è un mezzo: e come potrebbe un semplice mezzo, una tecnica appunto, sostituirsi ai valori e indicarci quali fini dobbiamo perseguire, quali dobbiamo evitare, e che cosa dobbiamo ritenere giusto e degno di essere realizzato nella nostra vita?

 

Francesco Lamendola


 

Commenti
NuovoCerca
Solo gli utenti registrati possono inviare commenti!