Uomo-dio

30 Marzo 2013

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da Rassegna di Arianna del 20-3-2013 (N.d.d.)

 

 

È di Immanuel Kant la più celebre e pregnante definizione dell’Illuminismo: «Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. […] Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza. È questo il motto dell’Illuminismo».

L’uomo, dunque, è stato un minore, forse un minorato, per secoli e millenni; probabilmente lo sono stati anche Platone, Aristotele, Agostino e Tommaso d’Aquino. Poi sono arrivati i “philosophes” e hanno reso l’umanità adulta, spronandola ad usare in modo libero e spregiudicato il proprio intelletto, senza la guida di altri, cosa che mai era stata fatta prima; ma, per fortuna, è giunto il tempo dei “lumi” della ragione e, con esso, l’inizio di una nuova èra, apportatrice di progresso, benessere e felicità per il maggior numero possibile di persone.

Ma che cos’è l’intelletto di cui parla Kant, di cui parlano gli illuministi? Che cos’è quest’intelletto che Platone, Aristotele e gli altri possedevano in misura così scarsa, mentre Voltaire, Diderot e gli enciclopedisti possiedono in misura così eminente? Certo non coincide con la ragione, dato che la filosofia greca e quella scolastica, per non parlare di quella rinascimentale, di sicuro non si possono definire carenti di razionalità; semmai, corrisponde a una ragione particolare, una ragione tutta strumentale e calcolante, una ragione fredda e tagliente come un meccanismo, come la lama della ghigliottina. Una ragione che non ha tempo né posto per lo stupore, per la gratitudine, per il senso del bello; che non deve sentirsi piccola davanti a nulla, che non deve ringraziare nessuno, che non esita a misurarsi con qualunque mistero, riducendolo all’ordine di un semplice problema: infatti i problemi, a differenza dei misteri, prima o poi si risolvono.

È una ragione senza amore: nelle cose non vede che strumenti di cui servirsi, nella natura non vede che un grande meccanismo di cui scoprire e dominare le leggi, e in se stessa non coltiva che una inesausta sete di potere, di conquista, di dominio, secondo il motto di Francis Bacon: «Knowledge is power», «sapere è potere». Non è, dunque, una ragione spassionata, che ama la conoscenza per la conoscenza, che sa contemplare con meraviglia e ammirazione lo spettacolo del mondo; è una ragione aggressiva, dominatrice, che si considera in guerra con tutto e con tutti e che non riconosce dei pari negli altri enti, ma dei potenziali avversari da piegare, da incatenare, da sfruttare: piante, animali, uomini: tutti devono inchinarsi alla sua superiorità, tutti la devono adorare.

L’intelligenza senza amore produce una scienza cattiva e una tecnologia demoniaca: gli oscuri mulini satanici di cui parlava William Blake, in piena rivoluzione industriale. Galilei, Cartesio e Newton sono i suoi cattivi maestri: intelligenze vivaci, ma superbe; anime fredde, presuntuose, arroganti, convinte che a loro e a loro soltanto è riservato il compito di decifrare il grande libro della natura, scritto appunto in caratteri matematici.

Noi siamo i figli e i nipoti di quella scienza e di quella tecnologia, di quella superbia luciferina. La scissione dell’atomo, i viaggi spaziali, la manipolazione genetica, la clonazione degli esseri viventi hanno a tal punto inorgoglito l’uomo moderno, da fargli smarrire anche l’ultima ombra di prudenza, l’ultimo bagliore di umiltà: nulla gli sembra impossibile alla sua ragione, nessun obiettivo troppo arduo, perfino quello di sconfiggere la morte.

L’uomo moderno, figlio della Rivoluzione scientifica e dell’Illuminismo, si crede diventato un dio: uno ad uno, è riuscito a realizzare dei disegni che solamente un dio pareva in grado di compiere. Non era forse una proprietà divina, quella di regnare nei cieli? E lui ha sfondato la barriera del suono, è andato sulla Luna, ha inviato satelliti verso Marte, Giove, Saturno, Urano ed oltre, nello spazio profondo. Non era una prerogativa divina quella di dare la vita? Ed egli la sa ormai manipolare in maniera stupefacente: può rendere madre una donna di sessant’anni; può creare specie altamente selezionate, modificandone il patrimonio genetico; può fare in modo che un individuo morto abbia dei figli, fecondando una cellula-uova, anche in un utero artificiale, mediante lo sperma dell’individuo estinto, appositamente conservato in congelatore; può fabbricare delle repliche identiche di creature viventi, che sono, al tempo stesso, figlie e sorelle di quelle da cui ha prelevato una cellula-uovo.

Che cosa non è capace di fare, davanti a quali ostacoli è costretto ad arrestarsi? Solo un dio poteva riportare in vita un uomo già afferrato dai tentacoli della morte; ma adesso la chirurgia, per esempio, è capace di impiantare un organo vitale, anche il più delicato, cuore compreso, nel corpo di un uomo condannato a morire, dopo averlo prelevato da un animale appositamente ucciso o da un altro essere umano, morto da così poco tempo che, forse, l’ultima scintilla di vita non lo aveva ancora del tutto abbandonato: ed ecco, la morte stessa deve arretrare, deve mollare la presa, e colui che stava già varcando i cancelli dell’Ade viene richiamato indietro, torna a vivere come se nulla fosse stato.

Forse era inevitabile che, davanti a tali successi, l’uomo moderno insuperbisse oltre ogni misura e giungesse alla conclusione che un dio, se mai è esistito, non può essere che lui; che lui solo ha la responsabilità della vita, della natura, del domani; che a lui e a nessun altri che a lui spettano le grandi decisioni relative al futuro, alla sopravvivenza o meno delle altre specie, al rimodellamento della superficie terrestre, alla costruzione del proprio destino.

Forse era inevitabile che l’uomo si sentisse solo in un universo disertato dagli dèi, e provasse la tentazione di riempire quel vuoto, collocandosi egli stesso nel suo proprio Olimpo, posto magari nella base spaziale di Cap Canaveral, oppure nelle basi nucleari sotterranee del New Mexico e del Nevada, oppure ancora nel grande impianto per l’accelerazione delle particelle presso il CERN di Ginevra. Dentro il suo camice bianco e davanti ai suoi supercalcolatori elettronici, egli si sente finalmente un dio: si sente finalmente uscito, come diceva Kant, dall’antico e prolungato stato di minorità, e proiettato verso le magnifiche sorti e progressive.

Forse era inevitabile; o, almeno, era inevitabile date le premesse: date, cioè, il tipo di ragione, il tipo di scienza e di tecnica che egli ha creato e messo a punto in Europa occidentale, a partire dal XVII secolo, per poi imporle al resto del mondo, nei quattro secoli successivi; forse, dicevamo, tutto ciò era inevitabile, ma certo ha creato in lui un delirio di onnipotenza, lo ha posto completamente fuori centro rispetto a se medesimo, e lo ha collocato in una posizione falsa, ambigua e pericolosa nei confronti della creazione.

Perché l’uomo non è Dio; e l’uomo che gioca a fare Dio, cessa di essere un uomo, per diventare una creatura dissociata e posseduta, alla lettera, da una forza più grande di lui, non benefica né benevola, anzi intimamente malvagia, che lo sospinge là dove egli nemmeno si rende conto di andare, che lo costringe a fare delle cose che egli crede di compiere liberamente, mentre è ormai diventato lo schiavo e lo zimbello di quella forza potente e malefica, alla quale non sa resistere perché non la riconosce e, forse, non sospetta nemmeno che esista.

 […]

I nostri predecessori, i nostri avi, i nostri nonni lo sapevano, con saggezza istintiva, anche se non avevano frequentato le moderne università, dove si forgia l’uomo-dio e dove gli si inculcano i falsi principî della sua onnipotenza: sapevano che il giunco resiste alla forza delle onde perché vi si piega e la asseconda, mentre la quercia viene scalzata e rovesciata, perché pretende di opporvisi; sapevano che nulla può fare l’uomo contro la natura, ma solo in sintonia con essa; e che il massimo della debolezza è il voler vincere sempre, il voler trionfare su tutto, sottomettere ogni cosa, imporre ovunque la propria supremazia: credersi, appunto, un dio [...

 

Francesco Lamendola

 

 




 

 

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