Ipertrofia dell'io

16 Giugno 2013

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Da Rassegna di Arianna del 29-5-2013 (N.d.d.) 

 

Ci sono molte cose che non vanno nel modo di amare degli uomini (e delle donne) moderni, ma tutte, o quasi, si possono riassumere in una formula: che l’amore non è più sentito come una chiamata, come una vocazione e come un completamento del proprio destino, ma essenzialmente come una brama, come uno stimolo da soddisfare ad ogni costo, non molto diverso dagli altri stimoli corporali, come quello di grattarsi se si avverte un prurito sulla pelle.

L’amore non è più visto come una relazione che ci completa, che ci realizza, e nella quale troviamo il significato del nostro esistere; ma come un fatto individuale, come una specie di diritto naturale della persona, una richiesta e un bisogno dell’io, nel quale il tu c’entra pochissimo, se non come corpo e come strumento di gratificazione del proprio io.

Questa è la ragione principale della crisi del matrimonio; le altre sono ragioni collaterali, che derivano, sostanzialmente, da essa: l’amore non è più l’espressione di un destino da realizzare, non è più un ponte che si getta verso l’altro, per completare e realizzare anche il proprio sé, ma è divenuto una tecnica di soddisfacimento sessuale per il piacere dell’io; ed essendo l’io dispotico, narcisista e capriccioso, il piacere che ottiene non è mai sufficiente e sempre esso torna ad esigerne dosi ulteriori, sempre più frequenti e massicce.

Per ragioni analoghe, anche il sentimento dell’amicizia è oggi fortemente in crisi; mentre il dilagare dell’edonismo sessuale non è altro che il rovescio della medaglia di un isolamento sempre più frustrante dell’io, di una sua sempre maggiore diffidenza, di una sempre più forte paura nei confronti dell’altro. Ed è logico: in un mondo di io ipertrofici, tutti protesi ad arraffare la maggior quantità possibile di piacere servendosi dell’altro, nessuno si sente riconosciuto e valorizzato, tutti si sentono usati e strumentalizzati e ciascuno è sul piede di guerra, con ogni senso all’erta, per godere il più possibile senza dover pagare alcuno scotto: in altre parole, per fregare gli altri prima che gli altri possano fregare lui.

L’omosessualità dilagante non è che un caso particolare di questo stravolgimento del retto senso dell’amore. Se l’amore, o la ricerca dell’amore, non è più la ricerca del tu che completi il proprio io, allora tanto vale concentrarsi sulla ricerca del piacere con qualcuno che non sia troppo diverso, perché la differenza metterebbe in crisi l’io narcisista ed ipertrofico: differenza, infatti, vuol dire tu, vuol dire uscire dal proprio io e confrontarsi costruttivamente con l’altro. Meglio, allora, puntare su un “altro” che si “altro” il meno possibile; sul proprio simile, che ci faccia da specchio; su qualcuno che sappia, anche materialmente, come darci il massimo del piacere, perché il suo corpo è identico al nostro.

Costruire un rapporto basato sulla differenza, al contrario, è faticoso: si parlano due lingue diverse  e a volte non ci si comprende; si è costretti, per forza, a uscire spesso e volentieri dal proprio io,  a dire tu, a mettersi in discussione, magari scontrandosi e litigando, ma comunque definendo meglio anche la propria identità, arricchendola, completandola. È proprio questo completamento che non interessa all’io ipertrofico e narcisista: esso si ritiene pago di essere così com’è, senza bisogno di uscire all’esterno, senza bisogno di affrontare fatiche e di dover lavorare su se stesso per riuscire a dialogare in profondità con l’altro.

La ragione della progressiva erosione della famiglia scaturisce da qui. Ciascuno bada prima di tutto ai propri diritti, alla propria gratificazione, al proprio piacere: l’altro, in questa prospettiva, è un ostacolo, o, nel migliore dei casi, un peso morto: sia esso una moglie o un marito, un figlio o un genitore. Perché complicarsi la vita per andare incontro al tu, perché rinunciare a tutte le occasioni, grandi e piccole, che la vita offre – occasioni d’ogni genere, sessuali e non -, insomma perché sacrificarsi, quando si sa che la vita è una e che ciò che è lasciato, è perso? Se ti piace una cosa, prenditela: nessuno ha il diritto di negartela , né ci sono vincoli che tengano. L’io prima di tutto.

In quest’ottica, oggi largamente diffusa (ma che fa la sua comparsa, in Occidente, verso la fine del Medioevo, precisamente con il «Decameron» di Boccaccio), anche l’attrazione sessuale non è che uno stimolo fisiologico, nel quale non hanno il minimo peso eventuali considerazioni relative all’amore come chiamata, come percorso preferenziale per evolvere da semplice individuo a persona: logico che, a quel punto, non abbia più importanza se l’oggetto del desiderio sia un uomo o una donna, un adulto o un bambino, o magari un anziano: tutto va bene, perché nessuno ha il diritto di porre dei limiti all’impulso verso il piacere (e se qualcuno lo fa, allora deve trattarsi per forza di un bieco moralista) [...]

Questa è precisamente la prospettiva da cui muovono tutti coloro, e oggi sono forse la maggioranza, che esigono una ridefinizione non solo dell’ethos sessuale, ma anche della legislazione familiare; che pretendono, ad esempio, che qualunque unione, eterosessuale o omosessuale, venga equiparata per legge alla famiglia “naturale” (come un tempo si usava chiamarla), formata dal vincolo stabile tra un uomo e una donna e aperta alla generazione dei figli. L’argomento pressoché unico di tutti costoro è sempre lo stesso: «Perché no?»; e, in subordine: «Che male c’è?». Se l’amore è il valore assoluto, allora che cosa importa se si tratta di una relazione stabile o temporanea, eterosessuale oppure omosessuale, fra due maggiorenni o fra due minorenni? Questi sono tutti pregiudizi, essi dicono: l’unica cosa che conta è amare.

Già, ma cosa vuol dire amare? Essi dovrebbero dire, più onestamente: l’unica cosa che conta è il piacere. L’amore non è la stessa cosa che la brama del piacere; l’amore è chiamata, vocazione, tensione verso il confronto con l’alterità, da cui scaturisce una più profonda e matura consapevolezza di se stessi. La famiglia, quella vera, nasce da questa tensione, da questo bisogno di arricchimento e di completamento: che è parte del percorso formativo della persona, e che non si realizza se ci si limita ad inseguire incessantemente le proprie fantasie sessuali più disordinate, cercando di metterle in pratica con chiunque e ogni volta che se ne presenti l’occasione.

Non che ci sia qualcosa di male nel piacere, tutt’altro: ma esso è il risultato dell’amore, non il suo fine o la sua ragion d’essere; infatti, l’amore ci può essere anche senza il piacere fisico, come può accadere quando sopravviene una menomazione fisica o, semplicemente, la vecchiaia. Chi non ha capito questo, non ha capito niente dell’amore e ne parla a vanvera, riempiendosi la bocca con una parola di cui non sa letteralmente il significato.

Una società nella quale l’amore cede il passo alla brama del piacere fine a se stessa, da raggiungere comunque e con chiunque, è una società che si getta a capofitto verso l’autodistruzione, perché in essa le persone scompaiono e vengono sostitute da individui narcisisti e chiusi in se stessi, atomi incapaci di aprirsi verso l’esterno, di dire “tu”, di collaborare con l’altro. La famiglia si sta disgregando perché è venuta meno la capacità di collaborare: nessuno vuol rinunciare a qualcosa, tutti sanno dire solamente “io”. Troppo poco per costruire qualcosa di durevole, come invece hanno saputo fare i nostri genitori e i nostri nonni.

Loro sapevano dire “tu”; noi lo abbiamo dimenticato. Nell’altro vediamo solo uno specchio, un riflesso del nostro io, uno strumento per raggiungere il nostro piacere. Se tutto quello che conta è l’orgasmo, allora possiamo affidarci anche a una macchina, a un circuito elettronico che simuli la realtà vera e la sostituisca con quella virtuale. Non occorrerà più stringere l’altro fra le braccia; basterà stringere un “tu” virtuale, ossia una proiezione del proprio io.

Ma l’io che sa dire solamente io, che nell’altro non sa più vedere il tu, è sterile: ed è condannato a vivere in un deserto nel quale, alla fine, sparirà, senza aver lasciato traccia del suo passaggio…


Francesco Lamendola

 




  

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