Nostalgia del "buon selvaggio"

1 Agosto 2013

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 Da Rassegna di Arianna del 22-7-2013 (N.d.d.)

È noto che l’opera di Claude Lévi-Strauss, quando giunse la ventata del ’68, fu sottoposta a dure critiche da parte della cultura “rivoluzionaria”, specialmente statunitense: da Angela Davis e Stokely Charmichael, esponenti di punta dei movimenti afroamericani, a Herbert Marcuse, nume tutelare della sinistra libertaria e ultra-contestatrice, all’etologo e zoologo Desmond Morris, si scagliarono tutti contro questo antropologo francese (ma di origine belga e di famiglia ebraica), titolare della Cattedra di Antropologia sociale presso il Collège de France ed esponente affermato e autorevole del pensiero strutturalista.

Che cosa gli rimproveravano, in buona sostanza? Dal punto di vista metodologico, la scarsa scientificità: l’aver privilegiato l’aspetto speculativo e l’aver scarsamente curato, nelle ricerche “sul campo”, la documentazione rigorosa, statistica, “scientifica”, appunto; dall’altro, l’aver idealizzato il “pensiero selvaggio” e, più in generale, la dimensione primitiva, per cui, pur avendo dato una forte spallata alle dominanti concezioni antropologiche etnocentriche, aveva però letto una serie di fenomeni culturali “selvaggi”, come l’esogamia e la relativa proibizione dell’incesto, in chiave tipicamente freudiana (e marxista).

Insomma, se come marxista – e sia pure anomalo – Lévi-Strauss poteva sembrare ancora troppo “eurocentrico”, come nostalgico di Rousseau era troppo “idealista”: non teneva in alcun conto l’aspetto evoluzionistico dell’uomo; pecca, questa gravissima, che si legava con l’altra, di aver immaginato il “punto zero” della civiltà in una ipotetica umanità selvaggia e “felice”, proprio come per gli illuministi. Ci voleva ben altro, per la cultura del ’68 californiano; ci voleva il crudo biologismo de «La scimmia nuda» di Desmond Morris, testo che, infatti, venne adottato per le loro lezioni sia da Herbert Marcuse che da Angela Davis.

Una faida interna alla cultura “progressista” degli anni Sessanta, dunque; non un dibattito aperto a trecentosessanta gradi, non una occasione o un tentativo di auto-critica di quella cultura (la quale, come è noto, riteneva e ritiene ancora adesso, nei suoi tardi ma impenitenti epigoni, di non sbagliare mai, quand’anche dovesse dare torto al mondo intero); qualche cosa di molto simile, dal punto di vista dei meccanismo psicologici, alla Rivoluzione culturale cinese, nella quale la giovane generazione maoista imbastì un inesorabile processo alla vecchia, accusandola, in ultima analisi, non di essere conservatrice, ma di non essere abbastanza rivoluzionaria, perché la rivoluzione non è mai “troppa” (tanto è vero che le Guardie Rosse non si peritarono di fare il processo “retroattivo” niente meno che a… Confucio).

Ed era logico. Una volta ereditato, dalla cultura illuminista, l’idea del Progresso illimitato, alla cultura marxista e “rivoluzionaria” del secondo Novecento non restava che da considerare alla stregua di nemici, attuali o potenziali, tutti coloro i quali non spingevano sempre più avanti la protesta, le rivendicazioni, la lotta; tutti coloro i quali mostravano qualche indugio, qualche esitazione, qualche scrupolo di natura “idealistica”; in breve, tutti coloro i quali non capivano che bisognava porre la cultura e lo stesso pensiero, puramente e semplicemente, al servizio della causa rivoluzionaria, subito, immediatamente: non domani, non fra un’ora, ma all’istante. Era la sindrome dell’estremismo rivoluzionario, la quale, accumulando un mito dopo l’altro – il 1793, il 1848, il 1871, il 1917 (l’Ottobre, beninteso, non il “borghese” febbraio), il 1945 (per l’Italia), il 1968, il 1977 (ancora per l’Italia) - era “costretta” a marciare sempre più avanti, a puntare sempre più in alto, gonfiando i propri slogan e proclamando che, ormai, non poteva accontentarsi di niente che non fosse il trionfo totale e irreversibile, quel «Vogliamo tutto» che sarà teorizzato da Nanni Balestrini: un misto esplosivo di massimalismo e d’impazienza.

Per Lévi-Strauss, le nostalgie russoviane sono evidenti e costituiscono il sottofondo della sua intera concezione antropologica e filosofica, anche se un’intelligenza lucida come la sua ne avvertiva la insostenibilità sul piano speculativo. Infatti una ipotesi del “punto zero”, come egli la immaginava, aveva tratti di somiglianza con quella di un  Jean Itard, cioè con il dibattito antropologico degli ultimi decenni del XVIII secolo, più che con quella di un Desmond Morris, poiché sospingeva la questione delle origini della civiltà in un passato favoloso e sostanzialmente a-storico [...]

Così come un’opera letteraria o artistica può essere “scomposta” negli elementi che la costituiscono, il cui valore funzionale è determinato dall’insieme dei rapporti fra ciascun livello dell’opera stessa e tutti gli altri, così Lévi-Strauss, entrato a contatto con l’ultima tribù “selvaggia” nella foresta sudamericana, si domanda in che cosa risieda precisamente tale essenza “selvaggia”, se negli uomini, nel paesaggio, nei particolari delle cose; sente che essa gli sfugge, proprio ora che è vicinissimo al mistero, e si rende conto che l’impronta di Venerdì non è impressa sul terreno argilloso in riva al grande fiume, sebbene ve ne siano tante altre lasciate dai piedi di innumerevoli, autentici selvaggi.

Isolando i particolari del luogo, con un procedimento in fondo più simile a quello della “epoché” husserliana – vale a dire a una sospensione del giudizio davanti all’oggetto - che a quello di un deliberato relativismo etnologico, Lévi-Strauss cerca di afferrare quella essenza ”selvaggia” che sente sfuggirli irreparabilmente; e approda, naufrago disincantato, alla constatazione che gli uomini, in fondo, sono simili ovunque, perché esistono delle strutture logiche comuni a tutte le culture. La formazione dei miti, per esempio, o l’organizzazione familiare, rispondono a un bisogno di organizzare il pensiero e le forme della vita sociale che è proprio dell’uomo in quanto tale e che assume aspetti diversi nei differenti contesti, fermo restando che il “pensiero selvaggio” non è meno logico e meno strutturato di quello dell’uomo “civile”.

Ma è proprio questo aspetto dell’antropologia di Lévi-Strauss che non piacque, che non può piacere a quanti inseguivano ed inseguono il mito “rivoluzionario” di una umanità alternativa al modo di pensare e di sentire occidentale moderno. Per costoro, Lévi-Strauss è un “normalizzatore”, un negatore di tale radicale alterità; essi hanno bisogno di credere – un bisogno quasi religioso, a ben guardare – che il “pensiero selvaggio” non ha nulla a che fare con noi, corrotti dalla civiltà e trasformati da essa in biechi agenti dello sfruttamento politico e sociale, della discriminazione razziale e sessista, in automi senz’anima al servizio del capitale.

Però, a questo punto, chi è il vero discepolo di Rousseau e del mito del “buon selvaggio”, con tutto ciò che di puerile, di irreale, di evasivo vi è in tale concezione: l’onesto antropologo che risale i fiumi del Mato Grosso alla ricerca dell’ultima tribù ai confini del mondo, e che rimane deluso dall’averla trovata diversa, sì, ma non quanto si aspettava, non così radicalmente “altra” rispetto al mondo civilizzato; oppure i suoi critici “rivoluzionari” che non accettano la sconfitta delle loro favole e non si rassegnano alla fondamentale uniformità dei meccanismi mentali e sociali, ma hanno bisogno di credere in un “pensiero rivoluzionario” che è solo l’estremo, irriducibile travestimento di quello “selvaggio”, magari incarnato in Patrice Lumumba o in Malcom X, in Ho Chi Minh o in Ernesto “Che” Guevara?

Se nelle fronde e nelle foglie della foresta sudamericana è possibile riconoscere il bosco di Meudon, alle soglie della periferia parigina, anche il “buon selvaggio” che la abita è costretto a retrocedere in una dimensione mitica, «ab illo tempore», il che equivale, di fatto, alla sua scomparsa dall’orizzonte spirituale dell’uomo moderno. E questo, Lévi-Strauss era disposto ad accettarlo, sia pure con un senso di delusione e con un’intima amarezza (ecco allora donde proviene la “tristezza” dei suoi Tropici!); ma i suoi contestatori di sinistra, no…


Francesco Lamendola

 




 

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