Gli Usa contro il Sudamerica libero

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Il servilismo del Tg2 della Rai all'informazione conveniente agli Stati Uniti è quasi grottesco. Qualche sera fa, per esempio, prendendo spunto da un articolo con punto interrogativo del Washington Post («Alla fine dovremmo giudicare positiva la presidenza Bush?»), un servizio cercava di trasformare in meriti dell'attuale presidente Usa proprio quelli che sono i buchi neri della sua amministrazione sciagurata. Sarebbe bastato controllare i famosi sondaggi sul favore di cui non gode in questo momento il presidente negli Stati Uniti per capire quanto lo storico quotidiano della capitale («liberal» in un frangente della sua storia tanto da far esplodere il caso Watergate, che affondò Nixon), sia tornato ad essere strettamente conservatore e si industri maldestramente di dare una mano ad un governo in caduta di consensi.
Negli ultimi tempi questo secondo governo di Bush Jr. ha perso perfino i pezzi, cioè i ministri, su cui basava la sua strategia imperiale. Da Rumsfeld, ministro della difesa, teorico della guerra preventiva e della possibilità di torturare, deposto dopo l'impantanamento in Iraq, ad Alberto Gonzales, ministro della giustizia dimesso dopo il tentativo, per niente democratico, di condizionare alcuni giudici non disposti ad adattare i propri verdetti agli interessi politici della disinvolta amministrazione Bush, fino al portavoce Tony Snow, sostituito con Dana Perino. E già clamorosamente se ne era dovuto andare anche Karl Rove, lo stratega della campagna elettorale di Bush. Al Tg2, tutto questo disagio recente del governo Usa, è sfuggito e non si sono nemmeno accorti dell'attuale offuscamento della stella di Condoleezza Rice, (che)... non ha trovato di meglio, dopo che Musharraf aveva costretto agli arresti domiciliari la rivale politica Benazir Bhutto e dichiarato lo stato di emergenza, di inviare in Pakistan John Negroponte, il suo vice esperto di «operazioni sporche» in Centro America, in Iraq e attualmente coordinatore di tutti i servizi di intelligence nordamericani. In questo contesto, aggravato da un'economia interna in sofferenza, non sorprende che gli Stati Uniti siano tentati di incrementare, nelle politiche internazionali, i vecchi metodi, quelli basati sul tentativo di «balcanizzare» i paesi che non si allineano agli interessi delle loro multinazionali. Dalle repubbliche filorusse dell'Asia, all'America Latina. Questo continente che cambia e riscatta anni di saccheggio delle sue risorse, allarma, in questo momento, gli Stati Uniti, o meglio, i suoi potentati finanziari più retrivi, in misura maggiore di quanto non fosse accaduto all'inizio del terzo millennio. E' una situazione che, purtroppo, sta suggerendo al Dipartimento di stato, distrattosi negli ultimi tempi in Medio Oriente, i metodi più prepotenti che, dagli anni Ottanta sembravano archiviati dalla diplomazia di Washington, in quello che era detto «il cortile di casa». Per esempio, la strategia della tensione favorita nella regione di Santa Cruz (la più ricca della povera Bolivia), da quando, da poco più di un anno, è stato catapultato a La Paz l'ambasciatore Philip Goldberg, che già aveva lavorato con successo per disgregare la ex Jugoslavia, sta toccando un limite di guardia.
Si arriva a rispolverare schemi che si pensavano abbandonati dopo il fallimento grottesco del golpe contro Chávez in Venezuela, nel 2002, ma con caratteri più inquietanti. Allora fu già scandaloso che il leader del colpo di stato, appoggiato dal governo spagnolo di Aznar e da quello nordamericano di Bush Jr, fosse esplicitamente il presidente della Confindustria locale, Pedro Carmona Estanga. Ma il tentativo illegale durò meno di quarantotto ore, perché Ugo Chávez si era già guadagnato, in pochi anni, la fiducia degli apparati militari, affidando loro incarichi sociali che li facevano sentire parte della trasformazione democratica del paese. Era quello, forse, che Chávez, se non fosse stato interrotto da un infastidito re di Spagna, teso a difendere l'onore politico nazionale, avrebbe probabilmente voluto ricordare al vertice dei paesi latinoamericani di Santiago, la settimana scorsa. Anche in Bolivia, gli Stati Uniti e le loro potenti multinazionali devono aver percepito l'inattesa resistenza delle forze armate nel farsi coinvolgere in azioni di eversione contro lo Stato centrale (...). L'inattesa lealtà dell'esercito, sorprendente in un paese dove negli ultimi cento anni ci sono stati più di centosettanta colpi di stato, ha spiazzato finora quelle forze reazionarie che, guidate da un possidente agro-industriale di origine croata, Branco Marinkovic, stanno spingendo verso la guerra civile. La tecnica, come successe in Nicaragua con i contras (allora sostenuti dal presidente Reagan), è quella di armare gruppi mercenari, provenienti o istruiti dai paramilitari, in questo caso della Colombia, o finanziare la secessione con capitali cileni di investitori come Juliano Adolfo Seco o Jorge Valdez, soci nella Banca dell'Unione del costruttore ed ex ministro boliviano, Andres Petricevic. Tutti personaggi legati all'ex presidente Sanchez De Losada, riparato a Miami, dopo la sanguinosa repressione, dell'ottobre del 2003, dei movimenti indigeni che rifiutavano la svendita proprio del gas naturale a un cartello di multinazionali. La fotografia di cui il presidente Evo Morales parlò nell'intervista rilasciata a Roberto Zanini proprio su il manifesto del 30 ottobre - che mostra l'ambasciatore nordamericano Philip Goldberg con il rapinatore e paramilitare colombiano Venegas Reyes ed il leader della Camera di Industria e Commercio di Santa Cruz, Gabriel Dabdoub - è emblematica in questo senso.
Così come non si può dimenticare che gli Stati Uniti, in una elezione durata fino all'alba al Parlamento del Paragay, hanno ottenuto nel 2005 la possibilità di istallare una base militare a Mariscal Estigarribia, una città di trentamila abitanti a 250 chilometri dalla frontiera con la zona dove più è vivo l'impegno sociale dei movimenti indigeni della Bolivia. Il senato paraguayano ha approvato anche una legge che assicura ai 500 marines della base l'immunità diplomatica. C'è il presentimento di assistere ad una storia già vissuta. E si capisce perché molta informazione occidentale su un giovane presidente come Evo Morales, che vuole cancellare l'arcaica dipendenza della Bolivia dagli interessi delle multinazionali del gas e dell'acqua, sia scorretta, e lo dipinga o come una marionetta nella mani di Cuba e del Venezuela di Chávez, o come un indigeno folkloristico, e non come invece è, un giovane leader che ha vissuto la miseria dei contadini boliviani ed è deciso a estirparla.
Gianni Minà

20 novembre 2007 Il Manifesto

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